
Si sta parlando parecchio di Premier League in questi minuti, accarezzando la svalutazione della Sterlina e strappandosi i capelli pensando ad un passato smaterializzato, in una sorta di sliding doors con il torcicollo, salutando talenti come Cesc Fabregas, Cristiano Ronaldo, Eric Cantona e gli attuali Dimitri Payet e N’golo Kanté. I media assieme all’amministratore delegato del massimo campionato d’oltremanica, Richard Scudamore, diventano vittime del giogo dell’articolo 19 della Fifa, quello che vieta i trasferimenti internazionali di giocatori con età inferiore ai 18 anni. Nel terzomondismo, dalla banlieue alla City, del pallone internazionale un tackle da dietro, a piedi uniti, alla Vinnie Jones.
Sui rettangoli verdi della Premier sono 388 su 595 – pari al 65,2% – i giocatori stranieri che calcano i prati, ovviamente primatisti in questa classifica tra i campionati del Vecchio Continente, ed il voto leave di giovedì ha scosso il presidente del West Ham, Karren Brady, rammaricandosi del mancato “libero accesso ai talenti europei che svantaggerebbe i club britannici rispetto a quelli continentali”. Dopo la conta dei calciatori, lo sguardo cade sul giro d’affari, vero motore di ogni azione uguale e contraria. La sorella della serie A parla chiaro, ogni anno contribuisce al Pil inglese con una cifra che si aggira attorno ai 3,4 miliardi di sterline, fornendo in tasse allo Stato 2,4 miliardi. Inoltre, l’accordo triennale – 2016-2019 – che riguarda le pay-tv farà cadere su Londra più di 5 miliardi di sterline, un pioggia con cui si bagneranno solo i volti “silvani” del football global.
A fronte delle cifre i padri del pallone possono benedire la Brexit, facendo professione di non far caso alla disperazione razionale dei mercati, perché nella follia dell’esterofilia a tutti i costi i sudditi della Regina Elisabetta possono tornare a rivestirsi di gloria. A partire dal campione d’acciaio Jamie Vardy, l’operaio divenuto d’oro dopo il titolo conquistato con il Leicester di Claudio Ranieri, impossessatosi delle luci della ribalta a 29 anni memore di una carriera passata nel polverone della categorie inferiori. La generazione Rooney, fino a ieri restava alla finestra perdendosi nell’apatia di quella targata Sterling, ora spera in un ritorno alle origini firmato british che riporta alla mente gli Alan Shearer, i Paul Gascoigne, i Gary Lineker, i Kevin Keegan e i Bobby Moore salutando – ma anche no visto che qualche scorciatoia la troveranno, troppo grande per fallire il progetto globale Premier – la corrente irreversibile del mondo obbligato a chinarsi al “nuovo” che avanza.
Lorenzo Cafarchio