Roma, 18 luglio – Ci sono foto che, scattate quasi involontariamente, diventano iconiche. È il caso di quella che ritrae Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ad un comizio elettorale del loro amico Beppe Ayala, mentre confabulano e ridono. All’indomani della strage di Capaci, ne serviva una speciale che raccontasse i due giudici, il forte connubio e la scelta ricadde su questa perché era l’unica foto che poteva essere pubblicata da un giornale, essendo stata scattata in bianco e nero. Allora i reporter giravano con due macchine fotografiche, uno per le foto a colori che servivano per i settimanali e l’altra, appunto, in bianco e nera per i quotidiani.
Paolo Borsellino e quella fiamma che non si è spenta
Eppure, se si dovesse raccontare Paolo Borsellino con una foto, la più indicata, quella più rappresentativa, quella che più parla per lui è quella che lo ritrae con una fiaccola in mano. L’istantanea fu scattata in occasione della fiaccolata organizzata a un mese dalla strage di Capaci e ritrae l’uomo, l’amico, il professionista ormai solo. Con quella luce che entrambi avevano provato ad accendere sulla Sicilia, su Palermo e che, nonostante Capaci, nonostante il carico del quintale di tritolo arrivato a Palermo, Paolo Borsellino continuava a custodire e ad alimentare per tenerla accesa. Viva. Da solo.
È la fiamma dell’antica passione, quella giovanile che lo portò a iscriversi nel 1959 nel FUAN, l’organizzazione missina, della fiamma, appunto, dei giovani universitari fino ad arrivare a ricoprire la carica di rappresentante provinciale degli studenti nella lista del Fanalino. Durante una rissa tra studenti di destra e di sinistra, il giudice missino finì pure davanti al magistrato Cesare Terranova che, qualche anno dopo, sarà il coordinatore delle attività di indagine di Falcone e Borsellino sulla mafia. Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra, Paolo Borsellino cresce con un alto senso dello Stato e della Patria. All’indomani dello sbarco americano in Sicilia, la madre intima ai figli di “non accettare nulla dagli americani” perché “la Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici”. I racconti dello Zio Ciccio, reduce dalla Campagna d’Africa, lo spingono a indagare oltre, fino a provare simpatie monarchiche tanto che, quando Giuseppe Ayala, fresco di candidatura parlamentare, saluta tutti nell’androne del palazzo di giustizia di Palermo, Paolo gli dirà: “Non posso Votarti. Sono monarchico, la Repubblica non fa per me. Tu sei repubblicano e io non ti voto”.
Uomo del popolo e uomo in mezzo al popolo
Intuito non comune per le indagini, concreto, crepuscolare, a tratti malinconico è il barone rosso, l’eroe popolare che tiene aperta la farmacia di famiglia, seppur in affitto, per la gente del quartiere in attesa della laurea della sorella al cui mantenimento provvede personalmente con le lezioni private, essendo diventati orfani di padre farmacista qualche giorno dopo la sua laurea con 110 e lode in Giurisprudenza. Popolare fino al punto che all’encomio tanto invocato per lui e per il suo amico fraterno Falcone da parte del padre del popolo antimafia Rocco Chinnici presso il presidente del tribunale di Palermo per lo zelo e il coraggio con cui i due magistrati si spendono – encomio che non arriverà mai – Paolo preferisce le lacrime di un umile cuoco di un ristorante di Terrasini: la strage di Capaci era già accaduta e Borsellino va a cena con i Carabinieri per fare il punto delle indagini. Alla fine della cena che ribattezzerà la cena degli onesti, il proprietario del locale gli si avvicina riferendo che il cuoco ha desiderio di conoscere il giudice. Imbarazzato dall’insolita richiesta, Paolo si avvia verso il cuoco, “una persona anziana con la faccia buona” e appena gli stringe la mano, questi scoppia a piangere. “Stavo per mettermi a piangere anch’io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco” sarà il commento di Borsellino all’amico Ingroia sulla strada del ritorno.
Uomo del popolo e uomo in mezzo al popolo tanto che il pentito Leonardo Messina, a margine di un interrogatorio, gli chiede un autografo: “È per i miei figli, me l’hanno chiesto loro, la conoscono, la vedono in tivvù”. “In ricordo delle lunghe giornate trascorse con vostro padre” scriverà su una cartolina il magistrato. È l’eroe di trincea che va in vacanza all’Asinara per redigere le ultime pagine dell’istruttoria per il maxiprocesso. È il vir romano che con coraggio resta al suo posto, ben conscio della fine che lo attende e che non si sottrae al suo sacrificio. Spende la vita per quello Stato in cui ha sempre creduto e immola volontariamente sé stesso nella lotta all’antistato. Serve là dove serve: in Sicilia, in tribunale e non a Roma, al Quirinale, dove avrebbe voluto portarlo Gianfranco Fini. Raccoglierà i “suoi” quarantasette voti e ringrazierà. Non senza arrabbiature. E continuerà a tenere convegni per parlare di mafia soprattutto ai giovani. Quasi un impegno extraparlamentare. Eroe perché soffre, combatte e vince. Diciannove ergastoli, duemilaseicento sessantacinque anni di carcere è il capolavoro del Maxiprocesso. Oggi Cosa Nostra non fa più paura, la mafia non insanguina più quotidianamente Palermo, il fenomeno mafioso si è evoluto in mille volti della criminalità organizzata.
L’attentato in via D’Amelio
È uno stakanovista con un immenso senso del dovere che passa il suo ultimo giorno di vita, il primo senza lavorare, a rispondere a un’insegnante che lo accusava di non aver risposto a una sua lettera. Lettera che non gli era mai stata consegnata. Così come mai verrà a conoscenza dell’informativa di Giacomo Ubaldo Lauro, ‘ndranghetista rifugiatosi in nord Europa che il 14 luglio avvisa il console italiano del luogo che a Palermo si sta progettando un attentato contro Borsellino. L’informativa, arrivata al Ros di Milano che tentò di mettersi in contatto con la Procura di Palermo, dove non rispose mai nessuno, fu inviata per posta ordinaria, arrivò a Palermo cinque giorni dopo che il giudice era stata fatto saltare in aria in via Mariano D’Amelio. Quel giorno, dopo due mesi in cui aveva lavorato anche diciannove ore al giorno, in una casa che era diventata un prolungamento del suo ufficio e dove trascurava i suoi familiari come mai era successo prima, pranza a Villagrazia di Carini, a casa dell’amico di sempre Pippo Tricoli, l’unico che, conoscendolo già dai tempi delle partite a pallone alla Kalsa, lo aveva visto preoccupato per davvero. Di quel giorno rimarranno le cinque sigarette delle inseparabili Dunhill nel posacenere fumate in poco più di un’ora e la tivvù accesa che trasmetteva una tappa del Tour de France, altra grande passione del giudice. Prima di partire saluterà tutti così come aveva salutato tutti il venerdì in Tribunale. Sicuramente un saluto diverso da quello che gli riservavano Beppe Ayala e Peppe Tricoli, quando entrando nel suo ufficio, alzavano il braccio al cielo, Falcone batteva i tacchi al suolo e tutti gli gridavano “Camerata Borsellino!”.Ci sono foto che, scattate quasi involontariamente, diventano iconiche e altre, simboliche, che senza necessità di essere scattate rimarranno e racconteranno più di ogni altra, più di ogni altro, ad imperitura memoria.
Tony Fabrizio