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Caricat! La cavalleria italiana a Isbuscenskij: quando storia e leggenda coincidono

by Sergio Filacchioni
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Roma, 24 ago – L’alba del 24 agosto 1942 si levò lenta sulle pianure del Don, portando con sé il vento dell’Est. Laggiù, nell’ansa di Isbuscenskij, il destino dell’Italia in Russia si sarebbe giocato non con i cingoli e con l’acciaio, ma con lo zoccolo e la sciabola. Il Reggimento Savoia Cavalleria, erede di secoli di tradizione e orgoglio, dimostrò che anche nell’era dei carri armati e delle mitragliatrici l’uomo poteva piegare la storia con la forza di volontà.

La cavalleria italiana in Russia

Il fronte era in bilico. La Divisione Sforzesca aveva ceduto, i battaglioni sovietici – veterani “siberiani” temprati dall’inverno – avanzavano con la forza dei numeri e delle armi automatiche. L’8ª Armata italiana rischiava di crollare in quel settore. A difesa restava la cavalleria, che molti giudicavano un’arma obsoleta, da parata più che da battaglia. Ma non era così che ragionava il colonnello Alessandro Bettoni Cazzago: l’uomo che prese su di sé la responsabilità di tentare l’impossibile. Nella notte tra il 23 e il 24 agosto, tre battaglioni sovietici – circa duemila uomini – si insediarono davanti alle posizioni italiane, trincerandosi con mortai e artiglierie. Quando il sole si alzò, i cavalieri del Savoia si trovarono improvvisamente avvolti dal fuoco. Per chiunque altro sarebbe stata la fine. Per loro, l’inizio. Bettoni si rivolse agli ufficiali, impartì poche parole d’ordine, e trasformò una difesa disperata in una decisione epocale. Alle trombe, il comando si diffuse come una scossa elettrica: “Caricat! — Savoia!”.

Isbuscenskij, l’ultima carica

Fu uno spettacolo che solo la Storia con la “S” maiuscola sa offrire. Il 2° squadrone, guidato di fatto dal maggiore Manusardi, si lanciò sul fianco sinistro russo. Sciabole sguainate, grido in gola, cavalli al galoppo sotto le raffiche delle mitragliatrici. Sfonda, colpisce, ritorna sanguinante e ridotto, ma apre la via. Il 4° squadrone appiedato, con i plotoni di Abba, Rubino, Compagnoni e Toja, avanzò nella tempesta di fuoco. Abba, il giovane tenente che sarebbe diventato leggenda, cadde nel tentativo di ricongiungersi ai compagni, colpito mentre trascinava i suoi uomini all’assalto. Poi toccò al 3° squadrone, guidato dal capitano Marchio. Fu la carica più dura, frontale, senza possibilità di aggiramento. Qui caddero il tenente Ragazzi e il maggiore Litta, che, ferito, continuò a combattere a una mitragliatrice fino all’ultimo respiro. In quei minuti la cavalleria italiana tornò ad essere ciò che era sempre stata: carne, acciaio e volontà. Le ultime sacche di resistenza sovietica furono spazzate via da sciabole, bombe a mano e perfino armi catturate. Quando il fumo si diradò, il campo apparteneva agli italiani. I numeri non rendono giustizia alla grandezza del gesto: 33 caduti e 53 feriti per i nostri, contro 150 morti, 300 feriti e 500 prigionieri tra i sovietici. Ma fu la dimensione morale, prima ancora che tattica, a rendere eterna quella giornata. Lo stendardo del Savoia Cavalleria ricevette la medaglia d’oro, e con esso gli uomini che si erano sacrificati, come Abba e Litta, divennero simboli di un’Italia che sapeva ancora combattere fino all’ultimo.

La cavalleria come moto dello spirito

Isbuscenskij non fu un anacronismo, ma una rivelazione. In un’epoca in cui la guerra sembrava solo industria e meccanica, la cavalleria italiana dimostrò che il coraggio, la tradizione e la disciplina non erano rottami del passato, ma forze capaci di ribaltare le sorti di uno scontro. Non fu effettivamente l’”ultima carica di cavalleria della storia” – quell’onore spettò ai Cavalleggeri di Alessandria a Poloj nell’ottobre successivo – ma fu certamente la più luminosa, quella che restò impressa nell’immaginario come “la carica della gloria”, facendo coincidere così come poche volte accade la storia con la leggenda. A distanza di oltre ottant’anni, Isbuscenskij continua a parlarci. Parla a chi rifiuta l’idea che la decadenza sia inevitabile, a chi cerca esempi di fedeltà e ardimento, a chi non si rassegna all’idea che la tecnica cancelli lo spirito. Perché la cavalleria non è solo un’arma, è un moto dello spirito: l’idea che l’uomo può ancora affrontare a viso aperto le sfide della storia.

Sergio Filacchioni

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