Roma, 5 luglio – Lo scorso 3 luglio il tribunale di Roma ha condannato Gianluca Iannone e Luca Marsella, dirigenti di CasaPound Italia, a un anno di reclusione (pena sospesa) per i fatti legati allo sgombero del Circolo Futurista di Casal Bertone, avvenuto nel gennaio 2022. Una pena superiore persino a quella richiesta dalla Procura, che aveva sollecitato appena quattro mesi. Una sentenza che ha il sapore della punizione esemplare, il cui significato va oltre il merito giudiziario e investe pienamente la sfera politica. Ne abbiamo parlato con Luca Marsella, protagonista della vicenda, per raccogliere una riflessione che va ben oltre il caso individuale.
L’intervista a Luca Marsella di CasaPound Italia
Partiamo dalla sentenza. Un anno di condanna per la difesa del Circolo Futurista. Te lo aspettavi? E che lettura dai a questa decisione del tribunale?
Francamente, non mi attendevo una condanna di tale gravità e sproporzione, soprattutto considerando la dinamica concreta dei fatti e le stesse richieste avanzate dalla Procura. Parliamo della difesa legittima e spontanea di uno spazio politico, culturale e sociale fortemente radicato nel tessuto del quartiere. L’azione repressiva è stata cercata e attivamente innescata dalle forze dell’ordine che, come testimoniato dalle riprese video, non hanno voluto intraprendere alcuna forma di interlocuzione, come invece avviene abitualmente in situazioni analoghe. Siamo stati immediatamente caricati, colpiti con lacrimogeni il cui impiego è apparso del tutto ingiustificato, non trovandoci certo di fronte a un assembramento ingestibile, ma a un gruppo contenuto di persone. Non è stato emesso alcun preavviso di sgombero e non ci è stato nemmeno concesso di recuperare i beni personali custoditi nella sede. La sentenza, dunque, non appare come un mero pronunciamento giuridico, bensì come un messaggio. Un messaggio teso a criminalizzare non tanto l’atto in sé, quanto l’identità politica di chi lo ha compiuto.
La Procura aveva chiesto quattro mesi, il giudice ha deciso per un anno: secondo te è stata una sentenza “esemplare”, fatta apposta per colpire CasaPound?
Sì, è difficile non interpretare questa decisione come una sentenza esemplare, quasi pedagogica, sebbene con una connotazione distorta: ciò che si colpisce non è il presunto reato, bensì il simbolo. Si colpisce ciò che rappresentiamo. Il fatto che il giudice abbia triplicato la pena richiesta dalla Procura è indicativo di una volontà punitiva che trascende la giustizia e sconfina nella repressione politica mascherata da legalità. Siamo di fronte a un monito diretto a chiunque osi opporsi al pensiero unico e si organizzi al di fuori delle cornici ideologiche istituzionalmente tollerate. Da tempo subiamo un inasprimento della repressione nei nostri confronti: penso ai nostri militanti sottoposti a misure cautelari sproporzionate, arresti domiciliari, processi per episodi francamente irrilevanti, amplificati ad arte dai media mainstream. Si pensi, ad esempio, alla vicenda di Torino, dove alcuni nostri militanti sono finiti ai domiciliari per un episodio che ha prodotto una prognosi di zero giorni a una persona che si era recata a provocarli. O al caso di Roma, dove giovani del Blocco Studentesco sono stati condannati addirittura per rapina, per una lite avvenuta davanti al nostro pub, provocata da militanti antifascisti presentatisi con tanto di bandiere, non certo a cercare il dialogo. Episodi simili si sono verificati anche a Napoli, Verona, Firenze e altrove. Non si tratta di un lamento: ci siamo sempre assunti le nostre responsabilità e continueremo a farlo. Ma negare l’accanimento giudiziario e mediatico nei nostri confronti significa negare l’evidenza.
In un’epoca in cui si tollerano centri sociali violenti e persino atti di sabotaggio politico, pensi che CasaPound venga trattata con un doppio standard giudiziario?
È del tutto evidente che vi sia una connivenza tra i centri sociali e la sinistra istituzionale, una relazione che si insinua persino nei gangli delle questure e delle aule di tribunale. Non si spiegherebbe altrimenti come, a titolo esemplificativo, gli antifascisti che hanno aggredito un nostro gazebo a Padova — forti di una netta superiorità numerica — siano stati rapidamente rilasciati senza alcuna conseguenza. Immaginiamo, a parti invertite, quale sarebbe stata la reazione istituzionale e mediatica. A Roma si è proceduto allo sgombero del Circolo Futurista, mentre in città esistono decine di occupazioni abusive da parte di centri sociali e gruppi di immigrati, alcune delle quali — come quella del Porto Fluviale — addirittura acquisite con fondi pubblici del PNRR, per una cifra pari a 11 milioni di euro, e destinate agli stessi occupanti. È anche per questo che abbiamo deciso, quel giorno, di opporci fisicamente allo sgombero: quelle mura non erano solo pietre e cemento, ma l’emblema della nostra legittimità politica, della nostra agibilità e — in senso più profondo — della nostra stessa libertà. Una libertà che, per noi, vale più di qualsiasi condanna.
Il Circolo Futurista non era solo una sede: era un punto di aggregazione, cultura e militanza. Che cosa rappresentava davvero quel luogo? E cosa ha significato per il quartiere?
Il Circolo Futurista è stato per oltre quindici anni una presenza stabile, riconosciuta e rispettata all’interno del quartiere di Casal Bertone. In un contesto periferico spesso segnato da degrado, abbandono e marginalizzazione politica, quel luogo era diventato un riferimento costante per molti residenti. In un territorio dove i partiti tradizionali compaiono solo durante le campagne elettorali, il Circolo ha saputo tessere relazioni autentiche, offrendo attività culturali, conferenze, presentazioni di libri, spettacoli teatrali. All’interno della sede si organizzavano distribuzioni alimentari per le famiglie italiane in difficoltà, si fornivano consulenze gratuite e assistenza ai cittadini, il tutto senza finalità di lucro e senza mai vincolare l’aiuto alla condivisione delle nostre idee. La nostra è una militanza fondata sul volontariato, sulla gratuità e sull’amore per la nostra nazione. Non abbiamo mai preteso una tessera in cambio di un gesto solidale. Abbiamo saputo radicarci in una zona di Roma storicamente di sinistra, nonostante l’ostilità iniziale dei centri sociali. La verità è che la sinistra contemporanea ha smarrito il legame con il popolo: ha abbandonato le fabbriche per occuparsi esclusivamente di immigrazione e diritti civili, perdendo così il contatto con le periferie e con la realtà concreta delle fasce più deboli.
Il recente rapporto Europol mostra che l’estrema destra viene repressa in proporzione molto più della sinistra radicale. Ti senti parte di un’area sorvegliata speciale, anche senza commettere reati?
Il quadro europeo è ancor più allarmante. Non solo si assiste allo scioglimento di movimenti extraparlamentari, ma anche partiti che godono di ampio consenso popolare — come l’AfD in Germania — vengono messi sotto osservazione, nonostante la loro rappresentanza istituzionale. Anche in Italia, come accennavo poc’anzi, si assiste a un’intensificazione della pressione repressiva. L’accanimento contro le commemorazioni dei nostri caduti degli anni di piombo è emblematico: la cerimonia di Acca Larenzia, che si svolge ininterrottamente da oltre quattro decenni, è oggi oggetto di denunce, processi, perfino di provvedimenti di DASPO sportivo. Provvedimenti che, va detto, sono stati successivamente annullati grazie ai ricorsi vinti, poiché giuridicamente inapplicabili in quel contesto. In realtà, ciò che intimorisce è il carattere sacrale di queste commemorazioni, la ritualità del “Presente”, la compostezza marziale di un gesto che i nostri avversari politici faticano anche solo a comprendere. E per questo lo temono.
Dopo questa condanna, come cambia — se cambia — la visione di CPI sull’attivismo? Continuerete a essere presenti sui territori, o pensi che ci sia un tentativo reale di impedirvi anche solo di esistere?
Nulla cambia. CasaPound ha fondato la propria identità sull’attivismo, che è e resta la nostra linfa vitale. Da vent’anni portiamo avanti un progetto politico, culturale e solidale alla luce del sole, con piena consapevolezza del prezzo da pagare. È il prezzo di essere liberi. Sappiamo che stare da questa parte della storia comporta, talvolta, la condanna da parte dei tribunali, dei media, del conformismo ideologico dominante. Ma non ci siamo mai sottratti. Non siamo cattivi maestri: non sacrificheremo mai i nostri giovani sull’altare del consenso. Ma a loro insegniamo a difendere con orgoglio e responsabilità le proprie scelte, in un’epoca in cui l’apparenza ha soppiantato l’essere. Siamo un movimento legittimo e, fintanto che non saremo messi fuori legge — eventualità peraltro tutta da motivare — continueremo a rivendicare con forza il nostro diritto a esistere. I nostri militanti sono padri, madri, lavoratori, studenti, e godono, come ogni cittadino, del diritto di parola, di manifestazione, di dissenso. Non partecipiamo alle elezioni, non abbiamo carriere da proteggere né interessi personali da difendere: ed è proprio questa la nostra forza, la nostra libertà. Ognuno di noi ha fatto una promessa: qualcuno vent’anni fa, altri più di recente. Ma nessuno ha intenzione di tradirla o di farla scadere. Le condanne non ci spaventano: sono medaglie. E quando un giorno i nostri figli ci chiederanno dove eravamo, mentre il nostro popolo veniva cancellato e la nostra nazione svenduta, noi sapremo cosa rispondere.
Vincenzo Monti