Roma, 10 ott – Mentre a Bruxelles si parla di sanzioni e solidarietà, i gasdotti e i terminal europei continuano a pompare miliardi di euro verso Mosca. A tre anni dall’invasione dell’Ucraina, l’Unione Europea resta intrappolata in un paradosso: sostenere Kyiv sul campo di battaglia, ma al tempo stesso alimentare l’economia di guerra russa con le proprie importazioni energetiche.
L’Europa che compra (ancora) energia russa
Secondo un’inchiesta di Reuters, basata sui dati del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA) di Helsinki, nei primi otto mesi del 2025 l’UE ha importato oltre 11 miliardi di euro di energia russa. È una cifra molto inferiore rispetto ai livelli prebellici – nel 2021 erano oltre 133 miliardi – ma comunque sufficiente a tenere in piedi uno dei principali canali di entrata per l’economia di guerra russa. Ancora più paradossale è il dettaglio che sette Paesi membri abbiano addirittura aumentato i propri acquisti rispetto all’anno scorso. Tra questi, cinque figurano tra i principali alleati di Kyiv: Francia, Paesi Bassi, Belgio, Romania e Portogallo. Parigi ha incrementato del 40% le importazioni, raggiungendo i 2,2 miliardi di euro, mentre Amsterdam ha registrato un aumento del 72%. Seguono Croazia (+55%), Romania (+57%) e Portogallo (+167%).
Più soldi a Mosca che a Kyiv
In molti casi, i governi coinvolti si difendono affermando di fungere da punti di transito per l’LNG (gas naturale liquefatto) destinato ad altri Paesi dell’Unione. È il caso della Francia, che sostiene di importare gas russo solo per “servire clienti in altri Stati membri”. Ma, come ammettono gli analisti, il risultato non cambia: il denaro europeo scorre verso Mosca, alimentando un’economia che da quattro anni finanzia la guerra contro l’Ucraina. “È una forma di auto-sabotaggio”, ha dichiarato Vaibhav Raghunandan, esperto di relazioni UE-Russia presso il CREA. “Il Cremlino riceve direttamente i fondi che gli consentono di continuare a dispiegare le proprie forze armate sul fronte.” Il paradosso è ancora più evidente se si osservano i numeri complessivi: dal febbraio 2022 a oggi, l’Unione Europea ha speso oltre 213 miliardi di euro in acquisti energetici dalla Russia, contro 167 miliardi di aiuti totali (militari, finanziari e umanitari) a Kiev. In pratica, ogni euro inviato a Zelensky è bilanciato da un euro e mezzo inviato, indirettamente, a Putin.
Le compagnie non obbediscono né alla Casa Bianca né a Bruxelles
Non poteva mancare la polemica oltreoceano. Il presidente statunitense Donald Trump, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha accusato i leader europei di “comprare petrolio e gas dal nemico che fingono di combattere”. “È imbarazzante per loro – ha dichiarato –. Stanno finanziando la guerra su entrambi i fronti, mentre noi paghiamo per la loro sicurezza.” Le parole di Trump hanno toccato un nervo scoperto. L’Europa, che nel 2022 aveva giurato di “tagliare i ponti” con Mosca, non è ancora riuscita a sostituire completamente le forniture russe. I tentativi di rimpiazzare il gas siberiano con quello americano si sono scontrati con la realtà del mercato: come ricorda Anne-Sophie Corbeau, ricercatrice al Center on Global Energy Policy della Columbia University, “è un’illusione pensare che il gas statunitense possa sostituire quello russo uno a uno. Le compagnie americane non obbediscono né alla Casa Bianca né alla Commissione Europea: massimizzano i profitti, non la geopolitica”.
Contratti blindati “take-or-pay”
Dietro la retorica delle sanzioni si nasconde un intrico di contratti a lungo termine che blindano i rapporti tra le grandi compagnie europee e i fornitori russi. Colossi come TotalEnergies, Shell, Naturgy, SEFE e Gunvor sono ancora legati a Mosca da accordi pluridecennali – alcuni in scadenza solo dopo il 2040 – con clausole “take-or-pay” che obbligano a pagare anche in caso di mancato ritiro delle forniture. “Se la Germania rifiutasse il gas, Yamal (il produttore russo) potrebbe rivendere le stesse quantità a un altro acquirente, incassando due volte”, ha ammesso un portavoce del ministero dell’Economia tedesco. In altre parole, anche volendo, non c’è modo di smettere di finanziare la Russia senza danneggiare le proprie imprese. Intanto, l’Unione Europea ha annunciato di voler anticipare al 2027 il bando totale sul gas russo, inizialmente previsto per il 2028. Ma la misura richiede l’unanimità dei 27 Stati membri, e Paesi come Ungheria e Slovacchia, ancora fortemente dipendenti dai gasdotti russi, si oppongono con fermezza. Nel frattempo, l’LNG russo continua a rappresentare quasi metà del valore delle importazioni energetiche dell’UE, mantenendo Mosca come uno dei principali fornitori del continente.
La Russia è lo specchio dell’Europa
Ma il paradosso non riguarda soltanto l’Europa. Anche per la Russia, questa dipendenza energetica reciproca è una contraddizione profonda, tanto economica quanto ideologica. Da oltre due anni il Cremlino presenta la guerra come uno scontro di civiltà, una crociata contro l’Occidente decadente e i suoi valori liberali. Eppure, mentre denuncia l’“assedio” dell’Europa, continua a finanziare la propria economia di guerra grazie ai pagamenti provenienti da quella stessa Europa. Il gas liquefatto che parte dai porti artici e approda in Francia o in Belgio è la dimostrazione concreta che l’autarchia proclamata da Putin è una finzione propagandistica. L’industria bellica, i salari pubblici, le pensioni e persino le spese per la mobilitazione militare si reggono, in ultima istanza, sui flussi di valuta forte che arrivano dall’Unione Europea. È un equilibrio fragile, fondato su un’ipocrisia speculare a quella occidentale: mentre Bruxelles teme di restare al buio, Mosca teme di restare senza contanti. Per questo la narrativa della “fortezza russa” non regge alla prova dei bilanci. Un Paese che dipende dai proventi dei propri avversari non è una potenza sovrana, ma un gigante con i piedi nel gas.
Narrazioni che vanno a farsi benedire
Questo “paradosso energetico”, in fondo, smentisce anche molte delle narrazioni care ai propagandisti occidentali del Cremlino. Non è vero che l’Europa sia un “vassallo” di Washington: se davvero obbedisse ciecamente agli Stati Uniti, avrebbe già chiuso ogni rubinetto russo, e Trump ce l’ha detto. In realtà, è fin troppo evidente che l’Unione ha mantenuto un pragmatismo economico: seppur contraddittorie, le scelte sui contratti energetici lo dimostrano. E non è vero neppure che le sanzioni “non funzionano”: hanno colpito duramente la Russia, che oggi incassa molto meno, esporta con forti sconti e dipende sempre di più dalle poche vie rimaste aperte verso l’Europa. Né regge la tesi secondo cui Bruxelles starebbe combattendo “una guerra americana”: se così fosse, non continuerebbe a versare miliardi a Mosca per gas e petrolio. La verità è che l’Europa in questo momento è un attore diviso, che cerca di contenere la Russia senza tagliare del tutto i propri nervi vitali, soprattutto perchè il principale rischio è scivolare dal gas russo a quello americano (gli Stati Uniti, oggi, sono il primo esportatore mondiale di gas liquefatto). E proprio questa contraddizione — più che la forza di Putin che “non vuole farci veramente male sennò l’avrebbe già fatto” — spiega perché il conflitto energetico, come quello militare, non si è ancora chiuso.
La Russia è intrappolata dalla nostra dipendenza
In fondo però, il paradosso energetico rivela chi, tra i due contendenti, è davvero in trappola. L’Unione Europea, pur immersa in una contraddizione micidiale — finanziare la guerra che dice di combattere — resta un gigante economico in movimento, capace di reagire e riconvertirsi. Ha ridotto del novanta per cento la dipendenza da Mosca, aumentato le importazioni di LNG da Stati Uniti, Qatar e Africa, e accelerato sulla transizione interna verso fonti rinnovabili e infrastrutture condivise. È un processo lento, costoso e pieno di ipocrisie, ma è in corso: l’Europa si sta muovendo, si sta adattando, e proprio questa capacità di mutare ne rappresenta la vera forza strategica. La Russia, al contrario, è immobile e dipendente. Ha perso il mercato europeo e non ne ha trovato uno equivalente; vende petrolio e gas scontati a Cina e India, ma senza ricavarne la stessa ricchezza. La sua economia di guerra consuma risorse, uomini e capitale industriale più rapidamente di quanto riesca a rigenerarli.
L’Europa può cambiare modello
Oggi il fronte non è solo militare ma commerciale. Finché l’energia russa continuerà a scorrere verso l’Europa, e i capitali europei verso Mosca, nessuna vittoria sarà reale. L’Europa può cambiare modello, la Russia no: e in questa asimmetria si decide il futuro della guerra — e dell’intero ordine energetico del continente.
Sergio Filacchioni