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Francesca Albanese: il volto del populismo di sinistra che seduce l’anti-occidentalismo

by Sergio Filacchioni
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Francesca Albanese populismo di sinistra

Roma, 1 dic – La sinistra italiana non è solo divisa: è entrata in uno stato di guerra civile latente, in cui ogni nodo irrisolto degli ultimi trent’anni torna in superficie in forma distorta. Il caso Albanese è il punto in cui tutte queste fratture convergono: il rapporto con l’Occidente, la NATO, Israele, i movimenti, i sindacati, il linguaggio dei diritti umani, perfino il lessico del “genocidio”. Ridurla a simbolo generico della sinistra radicale significherebbe giocare al ribasso: il suo ruolo è più preciso e più ingombrante. Albanese è ciò che accade quando una tradizione politica smette di darsi una linea e delega la propria identità a figure esterne, depositarie involontarie delle sue pulsioni e delle sue frustrazioni.

Francesca Albanese: dall’Onu una voce per Gaza

Partiamo dai fatti. Francesca Albanese, giurista italiana, nominata nel 2022 relatrice speciale ONU sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati – seconda italiana a ricoprire quel ruolo – opera con un mandato formalmente indipendente dagli Stati. Il suo profilo esplode mediaticamente nel pieno della guerra di Gaza, quando comincia a definire sistematicamente la condotta israeliana come “apartheid” e “genocidio”. Accuse che spingono Stati Uniti e Israele a denunciarne la faziosità, a ipotizzare antisemitismo mascherato e perfino un abuso del mandato. Nel luglio 2025 Washington arriva a sanzionarla personalmente, impedendole l’ingresso nel Paese; lei risponde parlando di misure “mafiose” e di “attacco all’indipendenza dell’ONU”. È su questa rottura frontale con il cuore dell’Occidente che la sinistra italiana sceglie, consapevolmente o meno, di specchiarsi. Il Partito Democratico reagisce come ha reagito a tutto negli ultimi anni: con equilibrismi. Di fronte alle sanzioni americane, Schlein si affretta a esprimere “solidarietà” ad Albanese e indignazione per il silenzio del governo, trasformando un contenzioso complesso tra un organismo internazionale e una superpotenza in una comoda sceneggiatura anti-Meloni. Ma quella solidarietà è solo simbolica, perché non implica alcuna presa di posizione sulle accuse rivolte alla relatrice ONU. Il Pd non dice se condivide l’imputazione di genocidio; non chiarisce se ritiene fondate le critiche di antisemitismo provenienti da più capitali occidentali; non spiega che cosa pensa dell’uso sistematico della cornice coloniale per descrivere Israele. Sfrutta l’onda emotiva senza assumere una linea. E qui emerge il punto: il Pd non è soltanto debole, è strutturalmente codardo. Vuole il dividendo morale di Albanese senza pagarne il costo politico.

Albanese spessa il gioco delle ambiguità

E infatti il messaggio implicito è chiarissimo: se la leader del principale partito di opposizione si schiera pubblicamente con una relatrice ONU sanzionata da Washington, sta dicendo al proprio elettorato – anche senza ammetterlo – che la vera voce morale non è il Pd, ma lei. Lo conferma, sul fronte opposto, la mole di dossier prodotti dal governo israeliano contro Albanese, accusata di ribaltare la memoria della Shoah e di legittimare la narrativa di Hamas. In mezzo, il Pd tenta di tenere insieme tutto: rispetto per Israele, difesa di Albanese, fedeltà atlantica e simpatia per la piazza pro-Palestina. Una quadratura del cerchio impossibile, che crea le condizioni ideali perché una figura esterna diventi un detonatore. Albanese funziona proprio perché spezza questo gioco di ambiguità. Il suo discorso non è realistico – a tratti è manicheo, perfino pericoloso –, ma è coerente. L’Occidente è un attore coloniale, Israele un suo prolungamento radicale, la NATO un apparato che consolida un ordine ingiusto, l’Europa un satellite vassallo che tradisce le proprie retoriche inseguendo il riarmo. È un impianto ideologico elementare, ma offre alla sinistra qualcosa che il Pd ha perduto: una narrativa totalizzante. Non interpreta il mondo, lo divide. Non propone di governare, propone di giudicare. È questa semplicità moralista, non la profondità dell’analisi, ad attirare una sinistra che non vuole più confrontarsi con la complessità.

Il supporto giovanile, sindacale ed editoriale

Ed è per questo che limitarci a chiamarla “radicale” o “neo-populista” significa evitare la questione centrale. Per una parte crescente della sinistra giovanile e movimentista, Albanese dice ciò che loro pensano dell’Occidente e che nessun dirigente politico osa verbalizzare. Lo dimostra il sostegno che riceve da reti internazionali di ONG e attivisti, che la presentano come vittima di una rappresaglia americana e come caso emblematico della “guerra ai diritti umani”. In Italia si crea rapidamente un blocco culturale che comprende base Pd, M5S, Avs, sindacalismo di base, cattolicesimo “orizzontale”, università, centri sociali. Ignorare questo fenomeno o archiviarlo come effimero è puro autoinganno. Il Fatto Quotidiano ha capito questi segnali prima di tutti. La sua sovraesposizione di Albanese, insieme alla linea di ferro anti-Ucraina, non è una scelta editoriale neutrale, ma una strategia politica: erodere la legittimità del Pd e fornire al campo progressista un nuovo baricentro morale, libero dai vincoli occidentali. Presentandola come voce “scientifica” e imparziale, la usa per colpire l’intera area riformista. La sinistra, così, ritrova una precaria unità solo nella denuncia dell’Occidente, non nella costruzione di un progetto nazionale.

Lo scontro sindacale

Sul fronte sindacale la scena si ripete, ma con maggiore concretezza. La CGIL di Landini rappresenta il vecchio modello: grande confederazione, linguaggio pacifista, condanna dell’invasione russa ma rifiuto dell’invio di armi a Kyiv, affidamento della “pace” alla diplomazia e all’ONU. È una posizione che consente di restare formalmente nel perimetro occidentale senza affrontarne le contraddizioni. USB, invece, salta ogni mediazione: scioperi generali contro la “finanziaria di guerra”, denunce della complicità dell’industria italiana, blocchi dei porti sotto lo slogan “porti di pace”, appelli al boicottaggio delle esportazioni militari. È la contraddizione elevata a metodo. E il parallelismo regge in pieno: Landini sta al mondo del lavoro come il Pd sta alla sinistra istituzionale; USB sta al sindacalismo come Albanese sta al campo dei diritti umani. Continuità da un lato, rottura morale dall’altro. Né Albanese né USB propongono una strategia credibile per l’Italia, ma hanno un vantaggio decisivo: non rispondono a nessuna responsabilità di governo. Possono spingere la retorica fino al limite, mentre Pd e Cgil devono fare i conti con la realtà. Ed è qui che nasce un fraintendimento diffuso: credere che questa radicalità, priva di pragmatismo, sia destinata a restare marginale. In realtà è già egemonica sul piano culturale: detta il ritmo, impone il linguaggio, obbliga gli attori “responsabili” a inseguire anziché guidare.

La tentazione della destra

Il problema più serio, però, non riguarda Albanese. Riguarda la sinistra stessa, che si ricompatta solo “contro Israele” e “contro l’Occidente”, trovando una fragile identità proprio dove abdica alla responsabilità nazionale. Lo si vede nelle cittadinanze onorarie, nelle candidature al Nobel, nelle celebrazioni laiche organizzate da amministratori locali: quando la politica si riduce a questo tipo di gesti, significa che ha rinunciato alla realtà. Albanese diventa così il simbolo perfetto di una sinistra che non vuole misurare le conseguenze delle proprie posizioni, ma solo certificare la propria purezza morale. A questo punto entra in gioco anche la destra. E il rischio di raccontarsi una favola consolatoria è enorme. Il linguaggio anti-occidentale – anti-NATO, anti-UE, anti-guerre “degli altri” – è radicato da anni nella destra sovranista, in un Paese segnato da austerità, pandemia, crisi energetica e inflazione. Il governo Meloni ha scelto un atlantismo disciplinato; la sua base molto meno. Se una figura come Albanese, sanzionata dagli USA e celebrata dai movimenti terzomondisti, diventa il simbolo del “non piegarsi”, non esiste nessuna barriera ideologica che impedisca a settori della destra di considerarla – magari in silenzio – una voce “coerente”, “credibile” o perfino “votabile”.

L’asse emotivo anti-occidentale è trasversale

E qui sta il rischio strategico: Albanese può rendere visibile una verità che molti preferiscono ignorare, cioè che l’asse emotivo anti-occidentale è trasversale. Se la destra non presidia questo terreno con una visione nazionale seria – distinguendo tra critica all’egemonia americana e rifiuto infantile dell’Europa – la sinistra radicale può tranquillamente pescare nel malessere sovranista. Non perché ne condivida l’agenda, ma perché offre un surplus di “moralità” che la destra non può imitare senza perdita di credibilità. Il vero pericolo non è quindi che la sinistra radicale sottragga voti alla destra, ma che la destra si lanci nella rincorsa suicida al populismo emotivo, credendo di poter imitare la radicalità moralistica della piazza. È l’errore strategico più grave: l’unico sbocco sano, maturo e realmente utile della spinta sovranista non è l’antagonismo terzomondista, ma l’elaborazione di una posizione nazional-europea pragmatica, strategica e di potenza. Una postura che critica le dipendenze occidentali senza fuggire dall’Occidente, che non rimpiazza Washington con Mosca, che non trasforma il risentimento in analisi. Se la destra non capisce questo finirà per sabotare sé stessa e per consegnare la propria cultura politica a chi non ha né la capacità né l’interesse di pensare l’Italia come soggetto storico. Figuriamoci l’Europa.

La frattura vera

La tentazione di cedere al rumore del momento è forte, e nessuno ne è immune: né la sinistra che si illude di trovare in Francesca Albanese una coscienza nuova, né la destra che pensa di poter competere sul terreno del populismo moralista. Ma alla fine la differenza la fa la visione del mondo. E l’unica via adulta per una Nazione come l’Italia – e per un continente come l’Europa – non è scegliere tra un Occidente che ci tratta come periferia e un Terzomondo che ci vuole complici della propria revanche ideologica: è costruire un’Europa alternativa a entrambi, capace di conciliare giustizia sociale e potenza, radicamento e autonomia strategica. Tutto il resto – dalle liturgie anti-occidentali alla rincorsa al populismo – è solo un favore al nemico, qualunque nome gli si voglia dare. Questa è la linea di frattura vera.

Sergio Filacchioni

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