Roma, 8 ago – Il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato nella notte il piano di Benjamin Netanyahu per “sconfiggere Hamas” e prendere il controllo di Gaza City. Il premier ha chiarito che Israele non intende governare né annettere l’enclave, ma assumerne un controllo di sicurezza permanente, lasciando la gestione civile a un’entità alternativa a Hamas e all’Autorità Palestinese.
Occupare la Striscia di Gaza e sconfiggere Hamas
Dietro queste formule diplomatiche si cela però un’operazione di portata enorme, che comporterà lo sfollamento forzato di circa un milione di abitanti, un assedio totale ai combattenti rimasti e la militarizzazione dell’ultimo grande centro urbano fuori dal controllo diretto dell’IDF. Netanyahu presenta l’iniziativa come la fase finale della guerra, articolata su obiettivi che vanno dal disarmo di Hamas alla smilitarizzazione dell’intera Striscia, fino al ritorno degli ostaggi. Ma la distanza tra gli slogan politici e la complessità della realtà appare già evidente, soprattutto alla luce della fragilità logistica e umanitaria di un simile piano. Già sul fronte interno emergono crepe significative. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir ha espresso perplessità pubbliche, denunciando la mancanza di una strategia umanitaria credibile e mettendo in guardia contro il rischio di fissare traguardi irrealistici, come il ritorno degli ostaggi entro scadenze cariche di valenza politica. Hamas, prevedibilmente, ha reagito accusando Netanyahu di voler sacrificare la vita dei prigionieri israeliani per fini personali e per un’agenda ideologica estrema, avvertendo che la conquista di Gaza City avrà un prezzo di sangue altissimo. L’elemento simbolico è cruciale: la caduta dell’ultimo grande bastione urbano sotto controllo diretto di Hamas avrebbe un impatto devastante per l’organizzazione, ma rischia anche di trascinare Israele in una lunga e logorante gestione militare senza una vera prospettiva di stabilizzazione.
Il colpo finale alla Striscia di Gaza
Sul terreno, Gaza è allo stremo dopo ventidue mesi di guerra. Oltre 61.000 palestinesi, in larga parte civili, hanno perso la vita; più dell’ottanta per cento del territorio è militarizzato e sottoposto a ordini di evacuazione; la carestia minaccia una popolazione interamente dipendente da aiuti umanitari giudicati insufficienti dalle Nazioni Unite. L’OMS segnala decine di morti per malnutrizione, tra cui numerosi bambini, mentre i bombardamenti continuano a colpire le zone ancora densamente popolate come Khan Younis e i campi profughi centrali. In Israele, intanto, la pressione politica cresce: le famiglie degli ostaggi chiedono un accordo immediato, mentre migliaia di ebrei ortodossi scendono in piazza contro l’abolizione delle esenzioni dal servizio militare. Netanyahu sembra puntare tutto su una vittoria militare entro il 7 ottobre 2025, anniversario dell’attacco di Hamas, come occasione di riscatto politico e personale. Ma la storia insegna che occupare un territorio ha un costo altissimo, ma mantenerlo pacificato ancora di più. E in questa frangente rischia di consumarsi l’ennesimo atto criminale dello Stato ebraico.
Sergio Filacchioni