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Hiroshima e Nagasaki: il massacro che i vincitori chiamarono pace

by Sergio Filacchioni
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Hiroshima

Roma, 6 ago – Tra il 6 e il 9 agosto 1945, due nomi sono entrati per sempre nell’incubo della storia: Hiroshima e Nagasaki. Ma ancora oggi, fin dai banchi di scuola, si ripete il teorema ufficiale: le bombe atomiche furono un atto “duro ma necessario” contro un Giappone che non si sarebbe mai arreso. Un racconto consolatorio, forse parzialmente vero, costruito però non per esaltare la resilienza nipponica, ma assolvere i vincitori e tacitare le coscienze.

80 anni dal bombardamento di Hiroshima

Possiamo leggere l'”effetto” Hiroshima attraverso le parole di Piero Buscaroli in Dalla parte dei vinti: il vero trionfo dei vincitori non fu solo la distruzione materiale, ma l’annientamento culturale e psicologico dei popoli sconfitti, piegati fino a considerare “giuste” le punizioni subite. Per Buscaroli Hiroshima diventa il simbolo di una rieducazione che, inoculando senso di colpa e devozione verso il carnefice, trasforma la memoria del massacro in atto di sottomissione permanente. Un lavaggio del cervello collettivo che le democrazie liberali hanno imposto alle nazioni vinte, spegnendo ogni istinto di riscatto. Qual è la verità? Quella che Yukio Mishima condensò in una frase: “Tutto ciò che era antico, elegante, puro e valoroso fu distrutto. Un impero che un tempo era sublime e glorioso fu distrutto”. Una verità che nonostante tanti anni di senso di colpa, riaffiora sempre più cristallina.

La pace evitata per compiacere Stalin

Infatti, che la capacità combattiva nipponica fosse straordinaria è fuori discussione. Ma esiste un’altra verità, appunto, ben meno nota attorno a quei giorni di agosto: Franklin Delano Roosevelt ricevette – e ignorò – non una, ma cinque richieste di pace da parte giapponese, a partire dal gennaio 1945. A rivelarlo fu il giornalista americano Walter Trohan, sulle colonne del Chicago Tribune e del Washington Times-Herald appena quattro giorni dopo la resa di Tokyo. Trohan pubblicò un memorandum di quaranta pagine, redatto dal generale Douglas MacArthur, contenente i termini proposti dal Giappone per la resa e trasmesso alla Casa Bianca addirittura prima della Conferenza di Yalta. Tutto messo a tacere dalla censura. Perché Roosevelt rifiutò? Forse perché l’obiettivo era consentire all’Unione Sovietica di invadere la Manciuria – come stabilito con Stalin – e garantirle così una fetta dell’impero giapponese? Di fatto, l’Armata Rossa entrò in azione puntualmente l’8 agosto, proprio tra il lancio di “Little Boy” su Hiroshima e quello di “Fat Man” su Nagasaki.

Mosca era già pronta all’atomica

Un’altra retorica cristallizzata nei manuali scolastici è quella che racconta i bombardamenti atomici come una sorta di “avvertimento” a Mosca. Senz’altro uno strano avvertimento, dal momento che l’URSS conosceva nei minimi dettagli il Progetto Manhattan almeno dal 1943. Grazie alla rete di spionaggio dell’NKGB – che operava dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti – il Cremlino riceveva informazioni dirette da scienziati (come Klaus Fuchs), economisti e persino parlamentari comunisti, come Fred Rose, capace di far arrivare a Mosca i verbali segreti sui progressi di Los Alamos. Che il 6 agosto 1945 segni l’inizio ufficioso della Guerra Fredda è una balla: il programma nucleare sovietico era già in stato avanzato prima ancora che Hiroshima bruciasse. La verità è che il bombardamento non fu né un gesto di nicciana volontà, né un monito strategico: Hiroshima e Nagasaki furono due atti di puro terrorismo, funzionali alla spartizione del mondo tra le potenze vincitrici, e compiuti nel disprezzo totale per la vita di centinaia di migliaia di civili. L’arroganza illimitata delle ideologie liberali e comuniste trovò nell’instaurazione della paura atomica la sua manifestazione più crudele.

L’eredità di Hiroshima e Nagasaki

A quasi ottant’anni di distanza, il ricatto nucleare e la condizione di sovranità limitata restano la vera eredità di Hiroshima e Nagasaki. Italia, Giappone e molte altre nazioni europee continuano a muoversi entro confini politici, militari e culturali tracciati allora dai vincitori. Finché questa catena mentale e geopolitica non verrà spezzata, la memoria di quelle città bruciate continuerà a essere piegata al racconto dei carnefici. Il primo passo è smettere di accettare la loro versione della storia.

Sergio Filacchioni

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