Roma, 15 mag – Mentre attori, registi e la solita intellighenzia da salotto lanciano l’ennesima petizione contro il ministro della Cultura Alessandro Giuli, accusandolo di “non ascoltare” il settore, nessuno pare voler affrontare la vera questione: il cinema italiano è in crisi non per mancanza di fondi, ma per mancanza di idee, visione e coraggio narrativo.
Il cinema italiano è in crisi di senso
Basta sfogliare i titoli degli ultimi mesi per rendersi conto del disastro artistico e culturale in atto. Da Le assaggiatrici (“una riflessione sulla violazione del corpo delle donne”) a Malamore (“melodramma barocco su relazioni tossiche”), passando per Queer, Ho visto un re e La vita da grandi, il cinema italiano sembra oggi uno sfogatoio per psicodrammi travestiti da impegno sociale, una terapia collettiva per autori in crisi d’identità che continuano a piangersi addosso. Non sorprende, dunque, che il pubblico abbia voltato le spalle. E i numeri parlano chiaro: negli ultimi anni, nove film interpretati da Elio Germano (colui che ha dato il “La” alla “rivolta del cinema” contro Giuli), uno dei volti più celebrati del cinema italiano, hanno ricevuto 17,7 milioni di euro in contributi pubblici, per un costo totale di quasi 46 milioni di euro. L’incasso complessivo? Poco più di 12 milioni di euro. Prendiamo il caso emblematico di Berlinguer – La grande ambizione, il film per cui Germano ha recentemente vinto il David di Donatello: oltre 2 milioni di euro di denaro pubblico spesi per un’opera che ha incassato appena 3,8 milioni. È questa la sostenibilità culturale che reclamano 94 tra attori e registi nelle loro lettere indignate? Non è un caso se a firmare quell’appello ci siano sempre gli stessi: Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Ferzan Ozpetek, Elio Germano, Paola Cortellesi, e compagnia cantante. Un sistema chiuso che da anni monopolizza finanziamenti, festival e premi, imponendo al pubblico storie depresse, senza spina dorsale, lontane anni luce da qualsivoglia “sentire” di respiro nazionale.
Il cinema è in crisi, in Italia come negli Stati Uniti
Sia chiaro, questa crisi non è solo italica. Hollywood è in pieno arretramento: scioperi, crollo degli incassi, supereroi che non tirano più, narrazioni wokiste che stancano anche i fan più devoti. Il risultato? Fallimenti a catena, svuotamento culturale, perdita di leadership globale. E ora si parla apertamente di ricostruire una nuova Hollywood in Texas, voluta da attori e produttori che non ne possono più dell’egemonia liberal e del pensiero unico che domina la West Coast. Un’iniziativa che ha un valore simbolico (ed economico) enorme: la cultura popolare non vuole più essere governata dall’ideologia, ma dalla bellezza, dal racconto, dalla verità. Un segnale che in Italia dovremmo cogliere al volo, anche e soprattutto da un sistema culturale che ha bisogno di sfidare sul piano delle narrazioni la sinistra egemone, ma pur sempre attaccata alla “tetta” di Stato. Anche perchè, intanto che ne discutiamo, Netflix, Amazon e Disney+ hanno rivoluzionato l’accesso all’audiovisivo. Produzioni ad alto budget, intrattenimento di qualità, narrazioni universali e popolari hanno conquistato gli spettatori italiani: dal 2000 ad oggi le serie più viste in Italia sono state Stranger Things, The Walking Dead, Game of Thrones, Lost, The Last of Us, The Mandalorian… il che ci suggerisce molto su cosa dovrebbero orientarsi le produzioni nostrane. Chi glielo fa fare, oggi, a un ventenne di pagare un biglietto per l’ennesimo dramma metropolitano con Elio Germano e i suoi tormenti post-comunisti? La crisi del cinema italiano non è solo produttiva quindi: è una crisi di attrattività, di contenuto, di visione. I finanziamenti pubblici, invece di essere uno stimolo alla qualità, sono diventati un paracadute per chi non sa più parlare al pubblico.
Un’alternativa esiste. E funziona
C’è però un’Italia cinematografica alternativa, poco celebrata, poco finanziata, ma molto più viva. Prendiamo Il Primo Re di Matteo Rovere: un film epico, girato in protolatino, visivamente straordinario e narrativamente potente. Oppure Le ultime 56 ore di Claudio Fragasso, cinema d’azione teso, asciutto, finalmente libero dal complesso d’inferiorità verso Hollywood. O ancora Comandante di Edoardo De Angelis, che ha saputo raccontare l’eroismo e il sacrificio senza scivolare nella retorica, ma con forza e identità. O l’ancora più recente Il Nibbio di Alessandro Tonda, basato sulla tragico caso di Nicola Calipari, agente del SISMI caduto in Iraq durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. A questo si può aggiungere anche un caso seriale: Romanzo Criminale – La serie, che ha saputo raccontare la criminalità romana degli anni Settanta e Ottanta con realismo narrativo, tensione mitica e un’estetica riconoscibile, diventando un fenomeno di costume. Non è un caso se, a distanza di anni, personaggi come il Libanese o il Freddo sono ancora oggi citati, imitati, ricordati. È un’epopea popolare, forse sporca, ma viva. E questo è ciò che manca al nostro cinema: narrazione, mito, memoria, scontro, identità. Sono esempi – sicuramente pochi – di cinema di volontà di potenza, che parlano di identità, destino, storia, scelta. Sono opere che non si vergognano di parlare all’Italia, e non a una giuria di festival. Film e serie con ambizione, muscoli, idee. Esattamente il contrario della produzione finanziata a pioggia dagli ultimi governi, dove conta solo il piagnisteo sociale e la de-costruzione dell’identità.
Anche Favino lo ammette
E persino chi, per carriera e posizionamento culturale, sarebbe portato a difendere il sistema attuale, inizia ad ammettere che qualcosa non va. Pierfrancesco Favino, in un’intervista pubblicata su Fanpage, ha dichiarato che il vero problema «non è Elio Germano o il ministro Giuli, ma un cinema completamente bloccato». Nessuno gira più, i fondi si sono congelati, e l’intero comparto è paralizzato. Una crisi oggettiva, dunque, che va oltre le polemiche personali. Il punto non è “Giuli sì o no”, ma cosa finanzia lo Stato, come lo fa e perché. Se persino uno degli attori simbolo del cinema italiano riconosce che si è fermi, che nessuno prende decisioni e che manca una direzione, allora è chiaro: questa crisi ha radici profonde, culturali, sistemiche. E chi oggi alza la canizza contro Giuli — e quindi contro il governo — è profondamente ipocrita: perché sì, un problema esiste, ma loro stessi ne fanno parte, da decenni. Che ne siano corresponsabili, anzi beneficiari diretti, gli è completamente oscuro. Oppure fanno finta che lo sia.
Serve una rifondazione culturale
Il tax credit dovrebbe premiare idee forti, visione, identità nazionale, non i soliti noti che fanno incetta di fondi pubblici per film che il pubblico rifiuta. Non si tratta di censura, ma di selezione culturale. Finché lo Stato continuerà a finanziare il nulla, il nulla continuerà a dominare. Il cinema italiano potrà rinascere solo se tornerà a raccontare se stesso con orgoglio, con forza, con mito. Solo se tornerà a essere arte popolare nel senso più alto. E per farlo, bisogna spazzare via l’industria parassitaria del piagnisteo, smettere di produrre film per festival e ricominciare a girare film per il popolo. Serve meno Elio Germano e più spirito di Pastrone, Leone, Rosi. Serve tornare al cinema che costruisce immaginario – anche conflittuale con lo status-quo, certo – non che lo decostruisce. Una volta, Carlo Verdone chiese a Sergio Leone chi fosse il più grande regista di western: «John Ford, Sam Peckinpah?». Lui lo guardò, fece una delle sue pause e disse: «Non hai capito un cazzo». Poi, dopo un altro silenzio: «Il più grande autore di western di tutti i tempi è Omero». «Aveva ragione – riflette oggi Verdone – l’Iliade è tutta un duello». E proprio questo manca al cinema italiano di oggi: il duello, il destino, il mito.
Sergio Filacchioni