
Proprio qui, secondo gli investigatori, sarebbe entrato in contatto con gli ambienti dell’Islam radicale e si sarebbe convinto a combattere nelle guerra in Siria nelle fila dello Stato Islamico, al quale avrebbe donato 6mila euro. Inoltre si sarebbe reso disponibile a compiere attentati in Italia. Difficile prevedere come andrà a finire il processo a suo carico, dal momento che poco altro sembra esserci a parte l’intenzionalità e l’associazione, ma è invece certo che il marocchino aveva chiesto armi ai suoi contatti e che queste armi non sono mai arrivate. Ed è certo che nella sua abitazione gli investigatori hanno trovato del materiale legato allo Stato Islamico. Agli investigatori poi ha ammesso le donazioni “giustificandosi” con la paura di eventuali ritorsioni.
Arrivato in Italia quando aveva soltanto 12 anni, Nadir Benchorfi ha studiato e lavorato nel nostro paese e, come abbiamo visto, si era poi recato in Germania. Nulla che faccia pensare ad una persona esclusa dalla società, messa all’angolo, non più di quanto possano esserlo tanti italiani che vivono di lavoro e rinunce nei palazzoni di periferia. Eppure, cresciuto in Italia, è rimasto legato alla sua identità fino all’estremismo e questo, al di là di come andrà a finire l’inchiesta, è un dato di fatto, così come la circostanza tragicamente ironica che Benchorfi vivesse proprio a San Siro, quartiere che, proprio per esser considerato a rischio, sarà tra quelli attenzionati dalle pattuglie miste formate da polizia ed esercito. Una zona che, soltanto lo scorso 20 novembre, sul Corriere, Andrea Galli definiva “il quartiere più islamico d’Italia“, dove “regna la disperazione”, tra “covi degli integralisti”, centri sociali, risse tra stranieri e spaccio. Una fotografia desolante che rende l’idea di uno Stato che prima si è ritirato ed ora è costretto a fare gli straordinari con l’esercito.
Emmanuel Raffaele