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Nepal in fiamme: la rivolta dei giovani contro il comunismo clientelare

by Sergio Filacchioni
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Nepal rivolta

Roma, 10 sett – In Occidente si parla già di “rivolta della Generazione Z. Una dicitura utile a sbloccare subito clichè digeribili dall’opinione pubblica: il ragazzino che straparla di diritti e vuole vivere con i social. Una retorica che ha uno scopo preciso: derubricare quanto accade in Nepal a un fenomeno folcloristico, facilmente comprensibile agli occhi di chi concepisce i giovani solo come consumatori passivi. Ma le immagini del Parlamento di Kathmandu avvolto dalle fiamme, le residenze dei leader politici assaltate, il coprifuoco e le dimissioni del premier comunista Sharma Oli raccontano una verità ben più profonda: non è un capriccio digitale, ma una rivolta generazionale contro un intero sistema politico.

Nepal come la Serbia: non chiamatela rivoluzione colorata

Lo avevamo già scritto affrontando l’ondata di proteste che ha avvolto la Serbia nell’ultimo anno: “non chiamatela rivoluzione colorata“. Si tratta di un vizio di forma che in Occidente tende a trasformare qualsiasi scenario estero in una polarizzazione comprensibile: sistema vs. anti-sistema, occidente vs. terrorismo, progressisti vs. reazionari ecc… Inutile dire però che la NATO questa volta non c’entra, e ridurre i manifestanti nepalesi a una massa di invertebrati che protestano “per i social” è quanto mai fuorviante. Vero: il pretesto immediato è stato l’oscuramento di 26 piattaforme, da Facebook a YouTube fino a WhatsApp e Instagram, che il governo ha deciso di bloccare perché non registrate localmente. Per i giovani nepalesi non si trattava di “perdere tempo online”, ma di veder cancellati in un colpo solo strumenti essenziali di lavoro, di comunicazione e di sopravvivenza sociale. Ma se il divieto ha acceso la miccia, la benzina era già pronta da anni: un’economia incapace di offrire futuro, un sistema politico marcio, la corruzione eretta a metodo di governo. Il 20% di disoccupazione giovanile e la fuga all’estero sono i dati che spiegano meglio di mille slogan la frustrazione di una generazione cresciuta con la promessa di democrazia e prosperità e condannata invece a fare la valigia. Nell’ultimo anno fiscale, il Dipartimento per l’occupazione estera ha rilasciato 839.266 permessi di lavoro all’estero: significa migliaia di giovani che ogni giorno lasciano il Paese. Le loro rimesse, pari a un impressionante 33% del PIL, tengono in piedi un’economia di pura sopravvivenza, senza alcuna trasformazione strutturale. In ogni caso, il dato è impressionante: metà della popolazione nepalese, 15 milioni di under 25, ha deciso di colpire direttamente i simboli del potere.

La fine del comunismo nepalese?

La rivolta di questi giorni è quindi l’effetto diretto di un modello di dipendenza e stagnazione. Il Nepal post-monarchico, guidato dai partiti comunisti, marxisti-leninisti e maoisti, non ha creato sviluppo, ma ha consolidato clientele e privilegi. La “democrazia” promessa nel 2008 si è tradotta in una spartizione permanente del potere tra poche famiglie e nella condanna delle masse giovanili all’emigrazione o al precariato. In questo contesto, tentare di “spegnere” lo spazio pubblico digitale è stato letto come umiliazione e punizione collettiva. La risposta è stata immediata e radicale: studenti in uniforme, laureati senza lavoro, lavoratori dei gig e cittadini comuni sono scesi in piazza insieme, abbattendo in poche ore la legittimità di un governo già logorato da scandali e lotte interne. Il dato politico è chiaro: questa è una rivolta anti-comunista – risparmiateci la riflessione su comunismo “vero” e comunismo “fallito” – perché si rivolge contro una sinistra che, dopo aver deposto la monarchia, ha tradito le proprie stesse promesse. Il Partito Comunista del Nepal (UML), così come i maoisti e i socialisti, si sono consumati in decenni di alleanze opportunistiche, di programmi di austerità imposti da FMI e donatori internazionali, di clientele e corruzione. Invece di garantire opportunità e sviluppo, hanno scelto la via più facile: reprimere, tassare, chiudere spazi. Il risultato è una catastrofe strategica per la sinistra nepalese: aver perso il contatto con le masse giovani, cedendo il terreno morale a chiunque sappia presentarsi come alternativa. Da qui la crescita del fronte monarchico, che già torna a proporre il ritorno del Re Gyanendra come soluzione al caos.

La gioventù del Nepal al bivio della storia

Con 19 morti e oltre 300 feriti in due giorni, Kathmandu mostra che esiste ancora una gioventù capace di ribellarsi, di affrontare gas lacrimogeni e proiettili veri pur di rompere un sistema corrotto. Colpisce, se confrontata con l’apatia dell’Occidente, dove il conflitto generazionale sembra ormai spento. Il messaggio che arriva dal Nepal non è quello che i nostri media diffonderanno – “gli adolescenti vogliono TikTok” – ma il contrario: una generazione tradita ha trovato il coraggio di incendiare i palazzi del potere. Con il premier dimissionario, il blocco dei social revocato e l’intera classe politica sotto assedio, il Nepal si trova di nuovo davanti a una scelta storica: rivoluzione o restaurazione. Da una parte la possibilità di un nuovo ciclo guidato da figure giovani e indipendenti, come il sindaco di Kathmandu Balendra Shah, dall’altra il rischio del ritorno alla monarchia come risposta all’impotenza della democrazia corrotta. In ogni caso, la lezione è chiara: quando una rivoluzione si riduce a nepotismo e corruzione, quando l’economia sopravvive solo grazie a rimesse dall’estero, la piazza diventa il tribunale più spietato. E in Nepal, questo tribunale ha appena emesso la sua sentenza.

Sergio Filacchioni

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