Roma, 1 lug – Le immagini che arrivano da Belgrado raccontano molto più di quanto facciano i comunicati ufficiali o le analisi superficiali degli osservatori esterni. Centinaia di migliaia di persone in piazza da mesi, un’intera generazione che rifiuta il cinismo del potere e una classe dirigente che, da più di un decennio, tiene la Serbia in ostaggio. Eppure, a Mosca come in Occidente, il copione è già scritto: sarebbe tutto parte dell’ennesima “rivoluzione colorata”, uno schema narrativo che fa comodo un po’ a tutti.
In Serbia non c’è una “rivoluzione colorata”
Ma in Serbia non c’è nessuna rivoluzione “colorata”, o tantomeno telecomandata. C’è un’insurrezione nazionale, concreta, popolare, che ha poco a che fare con i giochi di potenza tra Est e Ovest e molto invece con la vita quotidiana, la miseria economica e l’umiliazione politica di un’intera nazione. Il presidente Aleksandar Vučić non è un outsider. È un prodotto organico dell’ordine post-jugoslavo: ministro dell’Informazione sotto Milosevic, oggi uomo forte di un potere che concentra interessi economici, controllo mediatico e fedeltà internazionale ambigua. La sua Serbia altro non è che un modello di subordinazione simultanea: da un lato dipendente dal gas e dai finanziamenti russi e cinesi, dall’altro perfettamente allineata con le agende euroatlantiche su immigrazione, diritti civili, liberalizzazioni e privatizzazioni. Le sue credenziali “patriottiche” reggono solo nei discorsi da palcoscenico. Nei fatti, il suo governo ha assecondato ogni compromesso richiesto: dalle concessioni unilaterali sul Kosovo fino ad arrivare a Europride, migranti e svendita di aziende strategiche.
Una testimonianza nazionalista
A confermare questa lettura, arriva la voce di chi vive questo conflitto ogni giorno. Abbiamo parlato con Marko Gajinovic, un giovane militante nazionalista serbo, che ci ha raccontato con una chiarezza sconvolgente una versione difficile da reperire nei circuiti mainstream: “Non c’è nulla di anti-occidentale nel regime di Vučić. È un sistema che ha perfezionato il vecchio apparato comunista, sostituendo l’ideologia con il clientelismo. Per lavorare in una scuola o in un’azienda pubblica devi essere iscritto al partito. Non c’è meritocrazia, solo favoritismi. È un potere che compra consenso e lo difende con la forza. E se alzi troppo la voce, non ti mandano la polizia: ti mandano criminali legati alla politica”. Il riferimento è a gruppi mafiosi integrati nell’apparato del potere, utilizzati come strumento parallelo di repressione. “Abbiamo visto con i nostri occhi quello che succede. Vučić ha venduto tutto: ai russi, agli americani, ai cinesi, agli israeliani. E ora ci ritroviamo con stipendi da 500 euro, affitti da 600, e prezzi alimentari da Europa occidentale. I ceti medi non esistono più. E nel frattempo si costruiscono grattacieli da diecimila euro al metro quadro con i soldi degli speculatori”. Parole che spiegano le manifestazioni più di mille analisi geopolitiche “serie”. D’altronde Vučić ha definito i manifestanti “terroristi”, mentre la presidente dell’Assemblea li ha accusati di “fascismo”. Una manovra che ricorda la narrativa russa sulla denazificazione. Ma come spesso accade, chi cerca di inquadrare tutto ciò che avviene nello schema NATO vs Russia, non ha capito nulla: né del potere né della Serbia.
La Serbia non deve scegliere tra subalternità e paura
Il caso esploso a Novi Sad – dove il crollo della pensilina della stazione ha causato 16 morti – è stata solo la scintilla che ha appiccato l’incendio in una casa di paglia. Una tragedia che ha scoperchiato decenni di corruzione strutturale, appalti truccati e irresponsabilità politica. La richiesta dei manifestanti è semplice: verità, documenti pubblici, processi. La risposta del regime: silenzio, menzogne, arresti. Nel frattempo, Lavrov ammonisce l’Occidente di non “favorire una rivoluzione colorata”, come se ce ne fosse bisogno. Anche perchè l’Unione Europea tace e non disturba l’uomo che – soltanto formalmente – tiene la Serbia agganciata al suo “percorso europeo”. Ma sia Lavrov che l’opinione pubblica occidentale ignorano che le piazze serbe non cantano inni alla NATO, né sventolano bandiere russe. Cantano e si scontrano per il proprio futuro. Un futuro libero da tutti quei vincoli, visibili e invisibili, che tengono il Paese in una condizione di dipendenza, subalternità e paura. “Se possiedi una casa – ci racconta sempre Marko – e un investitore vuole il tuo terreno, ti pestano a sangue finché non firmi”. E no, non è un modo di dire.
Tornare padroni di sé
Il nostro interlocutore ce lo spiega chiaramente: “Sappiamo bene che, anche se riuscissimo a cacciare Vučić, non verrà un governo nazionalista. Ma ci interessa prima di tutto liberare il Paese da questo leviatano. Vivremo vite più semplici, più normali. E poi, in un contesto frammentato, dove nessun partito controlla tutto, potremo finalmente combattere ad armi pari nel campo politico e sociale. Non più contro un gigante, ma contro dieci nani”. Una visione strategica, concreta, lontana dalle illusioni ideologiche multipolari e dagli schemi astratti della globalizzazione. In un mondo dominato da schieramenti artificiali, dove si finge di dover scegliere tra Est e Ovest, tra democrazia e autoritarismo, il popolo serbo – o almeno una parte giovanile e vitale di esso – sta scegliendo qualcosa di più semplice e insieme più difficile: tornare padroni di sé.
Sergio Filacchioni