Roma, 30 giu – C’è un tipo di ignoranza che è peggiore della semplice disinformazione: è l’ignoranza semi-colta, quella che si ammanta di cultura e si impone con il tono sicuro di chi crede di aver detto qualcosa di intelligente solo perché ha letto due righe su Wikipedia. L’ultimo esempio è arrivato da Carlo Calenda, che, in uno dei suoi quotidiani esercizi di moralismo social, ha deciso di impartire una lezione di storia al generale Roberto Vannacci.
Calenda e i generali dell’antichità
A fronte delle dichiarazioni del militare sulla presunta incompatibilità tra la cultura del Pride e il concetto di sacrificio militare, Calenda ha risposto con uno dei meme più stanchi della divulgazione postmoderna: Alessandro Magno, Giulio Cesare e Traiano – tre dei più grandi generali della storia – sarebbero stati “gay”. Ergo, Vannacci è un ignorante, “ciuccio e presuntuoso”. Siamo alla solita sceneggiata progressista, dove l’antichità viene brutalmente deformata per legittimare le ideologie contemporanee. Il pensiero debole si nutre di anacronismi, e il leader di Azione ne è maestro. Per prima cosa, è bene ribadirlo: nel mondo antico non esisteva il concetto di omosessualità come identità. Esistevano pratiche, comportamenti, relazioni, ma non “categorie” sociali come “gay” o “etero”. Proiettare queste categorie moderne su figure dell’antichità non è solo sbagliato: è un’operazione ideologica. Sarebbe come sostenere che Omero fosse “no-vax” perché non cita i vaccini nei suoi poemi.
Sessualità antica: un codice di dominio, non un’identità
Uno degli errori più gravi della retorica contemporanea è la proiezione delle categorie moderne sul passato, come se la storia fosse un palcoscenico atemporale in cui tutto è riconducibile all’oggi. Ma la sessualità nell’antichità non si fondava su una nozione di orientamento personale, bensì su un sistema di gerarchie, ruoli e codici di potere. Come sottolinea uno studio dell’Università di Pisa, «l’elemento discriminante non era tanto il genere del partner, quanto la posizione assunta nel rapporto: l’attivo manteneva la sua dignità sociale, il passivo veniva invece associato alla femminilità, alla subordinazione e, quindi, al disonore». In Grecia, come a Roma, la sessualità era una questione pubblica e politica, legata alla virilità e al prestigio del cittadino. La passività sessuale era sopportabile solo in età giovanile, nella cornice pedagogica della pederastia, e comunque destinata a essere superata. Chi da adulto manteneva tale ruolo veniva stigmatizzato come cinaedus, ovvero effeminato, degenerato, inaffidabile. È dunque evidente quanto sia improprio – e storicamente scorretto – attribuire a figure come Cesare o Traiano una “identità gay” in senso moderno. Quelle relazioni, vere o presunte, non avevano nulla a che vedere con l’affermazione di un sé sessuale alternativo, né tanto meno con un’ideologia dell’orgoglio. La sessualità era un linguaggio del potere, non un simbolo di liberazione. Pretendere di trovarvi un’anticipazione del Pride significa non solo fraintendere la storia, ma piegarla a una funzione ideologica.
L’onore delle armi contro la cultura della sfilata
Calenda non riesce a distinguere tra un eroe antico e un influencer con la parrucca. Eppure, la differenza è tutto. Il punto di Vannacci, al netto dei toni, è semplice: il fronte richiede disciplina, spirito di sacrificio, un’etica della rinuncia. Il Pride, per sua stessa natura, è una manifestazione narcisistica, centrata sull’identità come diritto assoluto. Sono due mondi in contrasto. Chi ha combattuto, chi ha servito, chi ha perso compagni sul campo sa che certe forme di “orgoglio” non hanno nulla a che vedere con il codice del dovere. E non servono le citazioni da bar di History Channel per capirlo.
Vincenzo Monti