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Rassemblement sorvegliato speciale: la destra si normalizza (ma viene comunque colpita)

by Sergio Filacchioni
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Roma, 9 lug – C’è una parola che ricorre con insistenza ogni volta che un partito identitario conquista terreno: “normalizzazione”. È il mantra ripetuto dai media mainstream, dai commentatori, dai vecchi arnesi del centrismo: “per governare bisogna moderarsi”, “per diventare affidabili occorre smussare gli angoli”. Ma cosa si nasconde davvero dietro questa narrazione? E soprattutto: funziona davvero?

Il Rassemblement e la sindrome dell’aspirante rispettabile

È notizia recente che il Rassemblement National di Marine Le Pen, oggi in vetta ai sondaggi in Francia, abbia ingaggiato una società per monitorare l’attività online dei propri militanti e aspiranti candidati. Obiettivo: evitare imbarazzi futuri. Un commento fuori linea sul conflitto israelo-palestinese, una battuta scomoda su immigrazione o gender, un like a un meme “sbagliato” — tutto può costare caro. In breve, si spia il pensiero dei propri, si schedano preventivamente le “deviazioni”, si annusa il dissenso interno. Tutto per non “urtare la sensibilità” del potere costituito, in vista di quella consacrazione finale: la legittimazione istituzionale. Ma davvero questa operazione garantisce il successo? O, più semplicemente, porta alla snaturazione politica?

Il caso italiano: tra realismo e conformismo

In Italia, la parabola è chiara. Fratelli d’Italia, nato da una tradizione netta e identitaria, è salito al potere grazie all’onda lunga di un elettorato stanco delle ambiguità del centrodestra e attratto da un discorso di “rottura” con una determinata agenda. Una volta al governo, però, si è assistito a un progressivo allineamento: formule rassicuranti, posizionamento atlantista super ortodosso, sostegno al green deal in salsa tricolore, e messaggi a dir poco ambigui su immigrazione e identità. Ora, è evidente che una certa dose di realpolitik è necessaria. Governare implica compromessi, rapporti di forza, pragmatismo. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’imposizione di un conformismo sterile. Il vero problema sorge quando il pragmatismo si trasforma in autocensura ideologica. Quando, per evitare di “turbare” il sistema, si smette di dire ciò che si è. Eppure ci sono ambiti — come il riarmo o il ritorno al nucleare — dove si è dimostrato che si può essere sia radicali che pragmatici. Posizioni una volta tabù oggi sono finalmente discusse su scala nazionale. Dunque, non è l’intransigenza ad essere un ostacolo al governo, ma la paura di sembrare troppo diversi.

Governare sì, ma per cosa?

Il nodo centrale è semplice: governare è un mezzo, non un fine. Se il prezzo del potere è l’autocensura, l’abiura del passato, la repressione interna del dissenso, allora non siamo di fronte a una conquista, ma a una resa. Non è un’egemonia alternativa, è la perpetuazione del paradigma dominante, solo con un volto più “patriottico”. E allora viene il dubbio: non è che il sistema, più che accettare i nuovi arrivati, li ingloba per neutralizzarli? Prima li costringe a “ripulirsi”, poi li consuma e li svuota. E alla fine restano solo gusci vuoti, incapaci di parlare davvero al proprio popolo.

Autocensura o disciplina?

Chi difende queste forme di sorveglianza interna — come quella adottata dal Rassemblement National — spesso invoca la necessità di “serietà”, di “affidabilità”, di “disciplina”. Ma qui si rischia di confondere la disciplina della militanza consapevole con l’autocensura del conformismo. Non sono la stessa cosa. Adottare una vera postura militante vuol dire incarnare la “rottura” con il sistema valoriale che si vuole sfidare. La vera militanza non si misura con l’adattamento, ma con la capacità di inserirsi consapevolmente nel conflitto epocale – per dirla Locchianamente – della storia. Non si tratta di “non disturbare il manovratore”, ma di scegliere un fronte, e combattere con coerenza, anche nel lungo periodo. Questa disciplina — quella di chi si sente chiamato a compiere un destino — non ha nulla a che fare con la paura di sbagliare tweet o di sembrare “non allineati”. È una forma di ordine interiore, non una maschera imposta dall’alto per non turbare i salotti buoni. È la differenza tra il gregge  e la milizia cosciente che conosce la propria missione nella storia. Sorvegliare e spiare i propri quadri per evitare scivoloni mediatici è una forma di debolezza, non di forza. I partiti che ambiscono a un ruolo storico devono educare e forgiare caratteri, non filtrare profili.

Rassemblement nel mirino della magistratura

Nel frattempo, il Rassemblement National è finito nuovamente nel mirino della magistratura: la sede nazionale del partito è stata perquisita il 9 luglio nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria sulla gestione di fondi pubblici legati agli assistenti parlamentari europei. Un colpo simbolico — e forse non solo — che arriva proprio mentre il partito cerca di apparire più “rispettabile” agli occhi dell’establishment francese e internazionale. Ma questo dimostra, ancora una volta, che nessun maquillage comunicativo protegge davvero chi è percepito come nemico del sistema.

La vera alternativa

Serve una riflessione profonda. Chi vuole davvero cambiare le cose deve rinunciare all’ossessione della “rispettabilità”. Deve smettere di chiedere il permesso. La legittimazione vera non si ottiene genuflettendosi davanti ai custodi del vecchio ordine, ma confermando — e affilando — la propria identità. Essere “radicali” non è un difetto. È il presupposto per essere coerenti. Per questo, spiare i propri militanti, zittire le voci scomode, mimetizzarsi nel sistema non è solo inutile: è controproducente. Perché chi ha sete di verità, riconosce subito la puzza del compromesso.

Sergio Filacchioni

 

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