Roma, 15 lug – Reggio Calabria, 14 luglio 1970: inizia la più lunga e radicale rivolta urbana della storia repubblicana italiana. Quella data segna l’esplosione di un malcontento popolare che covava da tempo, destinato a trasformarsi in una delle pagine più controverse e dimenticate della nostra storia recente.
Storia di una rivolta dimenticata
Le ostilità si aprono a causa di un compromesso: la voce che Catanzaro sarebbe diventata capoluogo della Calabria circolava da mesi. Quel giorno però – il 5 luglio – arrivò la conferma ufficiale. La decisione del governo nazionale – frutto di un patto tra Psi e Dc consumato a Roma – venne vissuta come l’ennesimo sopruso verso una città storicamente, demograficamente e logisticamente più importante della rivale catanzarese. Il 14 luglio il sindaco Piero Battaglia annunciò pubblicamente la decisione del governo, e da quel momento Reggio si solleva come mai era successo. Barricate nelle strade, molotov, sassaiole, scioperi e assalti alle sedi pubbliche diventarono la quotidianità di una città che vivrà otto mesi nel tempo sospeso della rivolta. La risposta dello Stato non fu il dialogo ma la repressione: candelotti lacrimogeni, cariche della polizia e infine, come nel Natale di Sangue del 1920 che pose fine alla Reggenza del Carnaro, l’intervento dell’esercito italiano contro altri italiani. Ma nei primi mesi il livello di scontro sale rapidamente di livello: dai sassi si arriva presto alle armi da fuoco e agli esplosivi.
Limoni e barricate
Il corteo partito da Santa Caterina si trasforma rapidamente in una sollevazione popolare trasversale: donne, uomini, operai, studenti e commercianti marciano insieme. Nascono barricate lungo il Corso Garibaldi, sul Lungomare, in via Pio XI e fino all’autostrada. I binari della stazione vengono occupati, il traffico bloccato. La polizia carica, la città risponde con pietre e molotov. Il 18 luglio si celebrano i funerali della prima vittima, Bruno Labate, ferroviere della CGIL ucciso negli scontri. Un omonimia davvero “curiosa” con un altro sindacalista, però della Cisnal, rappresentante nello stabilimento FIAT di Mirafiori che sarà rapito dalle Brigate Rosse nel ’73. Intanto nasce il Comitato d’Azione per Reggio capoluogo, con esponenti di diverse aree politiche. La città si organizza: i negozi chiudono, i cittadini portano sassi per le barricate, i limoni vengono distribuiti per resistere ai lacrimogeni. Il 22 luglio il treno “Freccia del Sud” deraglia a Gioia Tauro: sei morti, settantadue feriti, un attentato che solo anni dopo sarà collegato alla strategia della tensione. Il 30 luglio la protesta si trasforma in guerriglia urbana. A Santa Caterina e Sbarre, i quartieri si autoproclamano indipendenti.
La città sotto assedio
La città visse in stato d’assedio per otto mesi, dal luglio 1970 al febbraio 1971. Morirono tre dimostranti e due appartenenti alle forze dell’ordine. Il volto simbolo della rivolta divenne Francesco – detto “Ciccio” – Franco, sindacalista della Cisnal, che guidò la protesta sotto lo storico grido “Boia chi molla!”. Era un motto già usato durante la Repubblica Partenopea e le Cinque Giornate di Milano, ripreso nel Novecento come slogan della destra radicale. La sua eco attraversò le barricate reggine, le piazze italiane e, più tardi, anche i banchi del Senato: Franco, dopo il tumultuoso periodo dei moti, fu eletto con un plebiscito popolare. La rivolta, che nella testa di Franco sarebbe dovuta essere “il primo passo della rivoluzione nazionale” durò così a lungo e fu così intensa da essere, all’epoca, paragonata da parte della stampa ai fenomeni terroristici dell’ETA in Spagna e dell’IRA in Irlanda del Nord. Un confronto senza dubbio enfatizzato, ma che rende bene l’idea dell’impressione suscitata in un’Italia che non aveva mai conosciuto, fino ad allora, una simile esplosione di violenza urbana.
La rivolta popolare (e Fascista)
Il PCI, all’epoca (e come in tutte le epoche in cui la storia chiama alle vie di fatto), si rifiutò di sostenere la rivolta temendo un’escalation violenta che avrebbe favorito i disegni dei “neri”. Il Partito Comunista scelse la linea della legalità, pagando però un prezzo politico e simbolico molto alto: fu così che l’unica vera rivolta armata e popolare contro la Prima Repubblica fu guidata da un sindacalista nazionale appoggiato dal Movimento Sociale Italiano, che si presentarono allora come gli unici difensori della protesta. Ed è anche per questo che la memoria dei moti di Reggio rimane altamente divisiva. C’è chi li ricorda come l’ultimo atto di rivolta del Sud contro lo stato parlamentare. Per altri furono un laboratorio per la strategia della tensione, un tentativo di destabilizzazione da parte della destra eversiva. La verità sta probabilmente nel mezzo: un’insurrezione popolare nata da un sentimento reale di esclusione e abbandono, guidata ed interpretata dai Fascisti che scelsero la via dell’azione ma che ebbe un’ampia e trasversale partecipazione. Un’insurrezione che per la sua ampiezza e portata divenne inevitabilmente terreno fertile per altri interessi nel cuore pulsante della Guerra Fredda.
Reggio Calabria come Budapest e Praga
In ogni caso, il 23 febbraio 1971, alle cinque del mattino sono i carri armati a penetrare nei quartieri caldi della città. Reggio Calabria si risveglia per un giorno come Budapest e Praga. Il governo Colombo chiude la partita militarmente, mentre a Roma ricominciano le promesse di sviluppo economico: investimenti che però che non vedranno mai la luce, tramutando la rabbia in sfiducia e rassegnazione cronica. I moti di Reggio Calabria restano un capitolo semi sconosciuto della storia italiana, nonostante resti un’anomalia amministrativa tutt’ora visibile: il capoluogo di regione è Catanzaro, ma il consiglio regionale ha sede a Reggio. Un’anomalia che perdura insieme al ricordo di quei giorni in cui una città si sollevò, pronta a tutto, tranne che a mollare.
Sergio Filacchioni