Roma, 12 ago – La realtà geopolitica ce lo sta gridando a gran voce: o si fa l’Europa o si muore… o si scompare, o come volete voi. Le ultime dichiarazioni provenienti da Mosca, infatti, hanno un significato che solo un cieco non vede: da Dmitry Medvedev che ha definito “euroimbecilli” i Paesi dell’Unione che sostengono l’Ucraina, alla portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, che ha bollato la recente dichiarazione comune come “volantino nazista”, la provocazione oltre che semantica è squisitamente politica. Delegittimare l’Europa come attore politico e ribadirne il ruolo subordinato rispetto ai veri protagonisti della partita globale: Stati Uniti e Russia, che ancora una volta decidono “sopra” di noi.
Romualdi e la necessità dell’Europa
Per chi conosce il pensiero di Adriano Romualdi, scomparso prematuramente il 12 agosto del 1973, questi fatti non suoneranno né come nuovi né come inattesi. A cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, mentre la Guerra Fredda disegnava un’Europa divisa e impotente, succube del diktat di Yalta, Romualdi cercava una chiave d’interpretazione che rispondesse proprio alla necessità vitale di esistere come europei, e non come prodotti della macchina consumistica americana o di quella burocratica sovietica. Per lui il nazionalismo ottocentesco, seppur spinto da una passione romantica e irrazionalista, è un detrito storico che rischia di intralciarci: troppo angusto per difendere la sovranità culturale e politica di un intero continente, troppo miopemente orientato contro “l’altro popolo europeo” invece che contro le forze che, dall’esterno, miravano a dominarli tutti. Per Romualdi, quindi, l’alternativa era (e resta) netta: o un nazionalismo europeo, radicato in una Tradizione comune e capace di integrare le diversità culturali nella cornice di una Weltanschauung unitaria, oppure la resa a quello che definiva, con chiarezza disarmante, “l’imperialismo russo-americano”. Non due opposti inconciliabili, ma due varianti di un medesimo disegno: spossessare l’Europa del proprio ruolo storico e trasformarla in una provincia dell’uno o dell’altro impero.
Il problema dell’Europa
Il quadro attuale sembra confermare quelle intuizioni. Mentre Mosca muove guerra e Washington ci tratta come un’insubordinata appendice atlantica, entrambi i centri di potere nascondono sempre meno il proprio disprezzo anti-europeo. Il problema è che a differenza di cinquant’anni fa una parte di opinione pubblica italiana, guidata da santoni sovranisti o ex-comunisti, si mostra disposta a benedire ogni convergenza russo-americana, purché utile a colpire Bruxelles. Le giustificazioni non mancano: cambi di contesto, esigenze tattiche, considerazioni geopolitiche spicciole. Resta il fatto che si tratta di una rinuncia culturale, di una resa sul piano della definizione stessa di sé. Negli ultimi anni, al contrario, è diventato di moda sostenere che l’Europa non esiste, sulla scorta di ovvietà storiche e linguistiche: non è mai esistita un’entità politica che racchiudesse tutti i popoli europei e soltanto loro (vero); un bulgaro e uno spagnolo non si comprendono. Ma queste constatazioni, banali ma per certi versi genuine, non possono chiudere il discorso. La realtà è che stiamo vivendo una strana ripetizione: questo dibattito è stato risolto filosoficamente già da oltre un secolo. Nietzsche, Heidegger, Locchi, Romualdi – ciascuno a suo modo – hanno chiarito che l’Europa è un problema, una sfida, un compito. Non un dato di fatto. Dunque, ogni tentativo di fondarla su un conservatorismo immobile o su una tradizione lineare è destinato a fallire.
Romualdi e la mentalità europea
Parallelamente, studiosi come Rougier, Hunke, Dumézil, Faye e Venner hanno dimostrato l’esistenza di un “mentale” europeo: un inconscio collettivo riconoscibile, espresso in forme sempre diverse ma tipiche, non confondibili con altre civiltà. È questa dimensione profonda che Romualdi, in uno dei suoi saggi più alti, ha collegato alla tradizione indoeuropea, dalla spiritualità vedica e persiana all’Ellade e a Roma, passando per il ciclo medievale e germanico. Un filo conduttore, incarnato nella concezione metafisica dell’ordine – lo rta vedico, il kosmos greco, la ratio romana, l’orlog germanico – come armonia che unisce mondo umano e divino. In questa visione, l’Europa non è un’eredità museale, ma un principio attivo: un’energia capace di muovere popoli, generare imperi, ispirare sacrificio e milizia. Questa idea di “mentale” europeo – un inconscio ancora vivo sotto un’autocoscienza deformata – illumina l’attualità. Il vuoto culturale di un continente incapace di riconoscersi come soggetto, preferendo affidarsi alla tutela di potenze esterne, è il sintomo della frattura tra ciò che l’Europa è nella sua radice e ciò che pensa di essere nella sua superficie. Una parte della destra sembra aver abbandonato l’idea di ricucire questa distanza, accontentandosi di appoggiare combinazioni geopolitiche russo-americane, magari in nome di una vendetta simbolica contro Bruxelles, ma sempre al prezzo di restare subalterni.
Un progetto politico
Inutile aggiungere, in conclusione, che Romualdi non proponeva un’Europa “apolide” e multiculturale come la sognano gli Europeisti alla Calenda o Bonino (anche se per qualcuno ormai Europa e +Europa sono sinonimi indissolubili). Adriano Romualdi voleva fortemente un’Europa Nazione: radicata nel suo “mentale” e capace di tradurlo in progetto politico grazie ad un rinnovato nazionalismo. Senza questo passo decisivo, continueremo a essere terreno di gioco per altri e bersaglio dei loro insulti, ridotti a pedine consenzienti di una partita che si gioca sopra le nostre teste. La sua lezione è ancora tutta lì: o si costruisce un’unità culturale e spirituale votata a un futuro politico, o si accetta di morire da irrilevanti.
Sergio Filacchioni