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Romualdi e il cuore prepolitico dell’Europa: le origini indoeuropee

by Sergio Filacchioni
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Roma, 24 giu – Nel tempo della cancellazione programmata delle identità, della “vaccinazione ideologica” imposta all’Europa dopo la sconfitta del 1945, “Gli Indoeuropei – origini e migrazioni” di Adriano Romualdi rappresenta un ritorno alla sorgente, alla radice profonda da cui sgorgò la civiltà europea. Un’opera tanto colta quanto militante, che riafferma una verità scomoda per il pensiero dominante: l’Europa è una comunità di sangue e di spirito, e non una semplice costruzione geopolitica o burocratica.

L’Europa prima dell’Europa

Romualdi, figura di spicco della destra radicale italiana del dopoguerra, coniuga rigore filologico, conoscenza archeologica e visione politica. Il suo libro è molto più di una sintesi sulle origini degli indoeuropei: è un manifesto per una rinascita europea fondata su identità, gerarchia e Tradizione. Alla base del saggio c’è un presupposto tanto semplice quanto rivoluzionario per l’attuale cultura globalista: noi Europei non siamo solo “cittadini”, ma discendenti di un unico grande popolo, sorto nell’Europa del Nord dopo l’ultima glaciazione, portatore di una visione del mondo eroica, solare, patriarcale. Dai boschi del Baltico ai campi dell’Indo, dallo spirito dorico di Sparta fino all’epopea vedica, si dipana il filo rosso (anzi, dorato) di un’umanità aristocratica che ha forgiato ogni vera civiltà. Romualdi rifiuta le lenti deformanti del progressismo storico. Non c’è “melting pot”, non ci sono “contaminazioni creative”: le grandi civiltà non nascono dalla mescolanza, ma dall’affermazione identitaria di un’etnia e di un destino. In questo senso, la ricerca delle origini indoeuropee diventa atto politico, non semplice curiosità accademica.

Contro l’oblio organizzato

Dopo il 1945, scrive Romualdi, si è assistito a un vero e proprio processo di disattivazione culturale: l’eliminazione delle radici, la falsificazione delle scienze umane, l’invenzione di origini anatoliche o caucasiche per negare la centralità nordica del ceppo indoeuropeo. La filologia e l’archeologia sono state piegate all’ideologia, nell’intento di cancellare il passato per impedire ogni futuro. Il mito indoeuropeo, centrale nella visione identitaria dell’Europa, è stato etichettato come “pericoloso”, “superato”, “razzista”. Ma è proprio da questo mito – fondato sul culto degli antenati, sul valore, sulla fedeltà – che può rinascere un’Europa degna del suo nome.

Un’identità scolpita nel linguaggio e nella terra

Romualdi parte dal dato più solido: la lingua. Le parentele tra sanscrito, greco, latino, celtico, germanico e slavo non sono solo accidenti filologici, ma tracce tangibili di una comune matrice etnica. A rafforzare questa intuizione arriva la ricerca linguistico-paleontologica più aggiornata: termini condivisi come laks (“salmone”) o buz (“faggio”) indicano con chiarezza una patria originaria situata tra il Baltico e la Germania settentrionale. Gli stessi studi moderni – come ricorda l’articolo “Le radici antiche degli Indoeuropei” pubblicato da Ereticamente.net – confermano oggi quanto Romualdi già sapeva: la cultura del vaso a imbuto (TRBK), il culto del cavallo, la domesticazione del maiale, l’idronimia indoeuropea (i nomi dei fiumi europei) rivelano una cultura nordica e neolitica, non asiatica.

Tra mito e genealogia

Il punto di forza del saggio non è (solo) nella documentazione filologica — pure ineccepibile — ma nella capacità di mostrare come lingua, razza e visione del mondo siano inscindibili. La radice indoeuropea è comune non solo nelle parole ma nei simboli, nei riti, nell’epica. Dal Rig-Veda all’Iliade, dai miti celtici alla Saga dei Nibelunghi, si dispiega una visione agonale, aristocratica, eroica, in totale antitesi con l’individualismo decadente delle democrazie liberali. Il mito qui non è evasione. È fondazione. Come dirà più tardi Giorgio Locchi, il mito è “storia di ciò che è sempre stato e sarà sempre”, cioè un principio ordinatore. E proprio partendo da Locchi si comprende che Romualdi non propone un ritorno al passato, ma al futuro. L’Europa che lui immagina non una costruzione giuridico-istituzionale, ma una realtà spirituale radicata nella Tradizione dei popoli indoeuropei. Una dimensione pre-politica ma necessaria. Come ricordava Carl Schmitt, nella storia europea è il popolo che precede lo Stato e lo fonda. Non esistono leggi e costituzioni che non debbano prima fondarsi in una determinata identità che le anticipa e le invera. Ed è proprio in questa visione che si ritrova l’intento romualdiano: l’Europa potrà nascere solo quando sarà fedele alla sua origine più profonda, quella propriamente indoeuropea.

Romualdi contro Cacciari

A distanza di anni, Romualdi risponde con un fendente anche a chi, come Massimo Cacciari, ha cercato di ridurre l’Europa a ecumene, a spazio della complessità fluida, della contraddizione permanente. In Geofilosofia dell’Europa, Cacciari si fa negatore di ogni fondamento etnico o spirituale, descrivendo il continente come un eterno farsi, senza centro né radice. Senza corpo. Una lettura certamente colta, che rischia di affascinare ma che finisce per omologarsi alle esigenze programmatiche del progressismo più intransigente. O magari ad una lettura negativa dell’europeismo, che nega l’identità europea in nome dei suoi caratteri apparentemente irriducibili. Ma è proprio a questa incorporeità che Romualdi si oppone, ante-litteram. Laddove Cacciari vede uno spirito errante, malleabile, Romualdi afferma la carne, il sangue, la genealogia. Laddove il filosofo veneziano vede la salvezza nel non-essere Patria, Romualdi proclama l’unità profonda: una stirpe, una missione, una visione del mondo. E proprio qui sta la frattura irriducibile: tra chi concepisce l’Europa come irrealizzabile per natura – o magari che come Cacciari fa un’apologia della sua irrealizzabilità esaltando a dismisura solo alcuni caratteri che pure fanno parte del suo patrimonio – e chi la sente come tensione, come possibilità storica realistica percorribile da un più alto senso di patriottismo.

Dal mito alla politica

Quindi, il centro dell’opera è senz’altro la politica dell’identità. Romualdi individua nella consapevolezza indoeuropea non solo una chiave per comprendere il passato, ma una piattaforma per rifondare il futuro. “Il bisogno di salvare il nazionalismo, trasferendolo dal livello degli antichi patriottismi a quello di un nazionalismo maggiore: la Nazione-Europa” – scrive – è la missione storica del nostro tempo. Per questo l’indoeuropeismo, lungi dall’essere un rifugio romantico, è per Romualdi una dottrina attiva, estetizzante, un’arma sia contro il nichilismo egualitario sia contro l’uniformità imposta dal consumismo. È il richiamo al dovere e alla gerarchia, all’eroismo e al sacrificio.

Per una gioventù europea consapevole

Nel suo saggio, Romualdi parla implicitamente ai giovani. A chi non si accontenta dei valori fasulli dell’Occidente liberal-capitalista e non cerca rifugio in qualche “altrove” geopolitico. A chi vuole sentirsi parte di un popolo che ha scolpito i templi dell’Ellade, conquistato l’India, forgiato Roma, esplorato l’oceano. A chi crede che la vera rivoluzione sia il grande viaggio di ritorno verso le proprie origini. Gli Indoeuropei non è un libro per archeologi. È un libro per militanti. Per chi sa che ogni grande idea nasce da un mito fondatore, e che senza mito, l’uomo europeo muore, spiritualmente e antropologicamente. Romualdi non invita alla nostalgia, ma alla lotta. E ci ricorda che, prima di essere un mercato, una moneta o un’istituzione, l’Europa è prima di tutto una stirpe, un destino e un dovere.

Sergio Filacchioni

  

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