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Salviamo Gaza da Greta e pro-Pal: la bolla mediatica che non ferma il genocidio

by Sergio Filacchioni
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Gaza

Roma, 2 sett – La Global Sumud Flotilla è salpata il 31 agosto da Barcellona con l’obiettivo dichiarato di rompere l’assedio a Gaza e aprire un corridoio umanitario. Poche ore dopo è rientrata in porto per maltempo: gli organizzatori parlano di una “prova in mare” e rinvio della traversata; nuove partenze sono attese lungo la rotta mediterranea nei prossimi giorni. Tra i sostenitori e i partecipanti figurano attivisti, operatori umanitari e volti noti come Greta Thunberg.

L’attivismo che non salverà Gaza

Da mesi talk show, manifestazioni, editoriali e campagne social producono un flusso ininterrotto di immagini e parole su Gaza. La verità dura da accettare è che in realtà non esiste alcun “muro di silenzio”: esiste piuttosto una saturazione che incanala l’indignazione in rituali innocui e poserismo militante (in inglese, un “poser” è una persona che finge di essere qualcosa che non è). Nel frattempo, la realtà resta inalterata: la volontà genocidaria israeliana non trova ostacoli concreti da parte di nessuno degli attori che contano davvero. Perfino l’Unione Europea, che negli ultimi mesi è stata la più critica verso lo Stato Ebraico, rimane sostanzialmente divisa su come fare pressione su Israele – per ammissione dell’Alto Rappresentante Kaja Kallas. Perfino ipotesi cosmetiche (come limitazioni a programmi di cooperazione) restano formalmente bloccate.

Le contraddizioni del mondo propal

Dall’altra parte, la contraddizione del mondo “pro-Palestina” occidentale è fin troppo evidente: la spinta principale proviene dalla galassia no global, che per vocazione rifiuta le identità collettive e i confini, nonostante la causa palestinese è, in primo luogo, una lotta di liberazione nazionale radicata in un popolo e in una terra, e negli ultimi anni anche nell’estremismo religioso. Questa incongruenza si traduce in un linguaggio simbolico importato (hashtag, rituali, estetica della protesta) che spesso appiattisce la specificità storica e politica della resistenza palestinese, piegandola alle coordinate di un attivismo occidentale standardizzato. In questa operazione, la centralità mediatica di Greta Thunberg non è un dettaglio: è la cifra dell’operazione. Greta è il volto più riconoscibile dell’eco-attivismo occidental-progressista, un circuito perfettamente integrato nell’establishment culturale e mediatico. Applicare a Gaza lo stesso copione comunicativo già usato per il clima significa trasformare la tragedia palestinese in un format: alto impatto simbolico, minima incidenza reale. Anche il rilancio mediatico sulla “ricostruzione di Gaza” e del piano GREAT di Trump, ancora prima della fine dei bombardamenti, è parte della stessa liturgia: sposta l’attenzione dall’urgenza di fermare la distruzione verso un after-show che sterilizza il conflitto per renderlo digeribile all’opinione pubblica occidentale.

Distruggere il frame narrativo che protegge Israele

Per capire perché le passerelle non cambiano i fatti occorre guardare al dispositivo che da vent’anni organizza il discorso pubblico sul Medio-Oriente: la “lotta al terrorismo partita dopo l’11 settembre 2001. È il frame con cui si è legittimato l’intervento in Iraq e Afghanistan, la destabilizzazione della Siria, il sostegno diretto a milizie jihadiste in funzione anti-Assad, fino al ritorno dei Talebani a Kabul e dei jihadisti a Damasco. Uno schema a cui hanno partecipato tutti: liberali, conservatori, democratici e progressisti; alcuni interessati all’esportazione del liberismo, altri all’esportazione dei diritti civili. Ma in fondo è lo stesso schema che oggi da una parte classifica ogni atto di resistenza palestinese come “terrorismo” e ogni operazione israeliana come “difesa”, dall’altra guarda solo al lato umanitario senza considerare i dati politici e religiosi. Così facendo, si neutralizza in partenza qualsiasi azione realmente tangibile, a tutto favore di chi incarna l’iniziativa militare: Israele. L’esito è sotto gli occhi di tutti: l’assedio è diventato genocidio.

Per Gaza servono scelte politiche reali

Tradurre la solidarietà in scelte verificabili significa misurarsi con decisioni che hanno un costo. In concreto: sospensione delle licenze per materiali d’armamento e componenti dual-use; moratoria su programmi di cooperazione strategica; condizionalità dure su commercio, ricerca e accesso a mercati e capitali; sostegno operativo a corridoi umanitari garantiti da Stati (non da ONG) con mandati chiari e responsabilità; attivazione di procedure giudiziarie internazionali che non restino meri atti simbolici. Tutto il resto è coreografia. La Global Sumud Flotilla misura il grado di impotenza europea: grande ritorno d’immagine, zero deterrenza. Se verrà fermata, assisteremo all’ennesima diretta di indignazione; se passerà, sarà perché Tel Aviv avrà scelto di lasciarla passare. In ogni caso, non è lì che si gioca la partita. La partita si gioca sui rubinetti che contano — tecnologia, finanza, armamenti, diplomazia coercitiva — che oggi restano sostanzialmente aperti (o socchiusi).

Mordere la realtà, nonostante i propal

Dobbiamo dircelo: la saturazione comunicativa trasforma ogni causa in immondizia narrativa se non è sostenuta da decisioni che mordono la realtà. Ma come abbiamo detto qualche anno fa dopo l’esplosione del fenomeno Thunberg, bisogna sforzarsi di parlare di ambiente, in questo caso di Palestina, nonostante gli ambientalisti gretini e i propal cretini (ora possiamo dire che le due categorie coincidono). Chi pretende di stare con la Palestina deve assumere la sua natura di questione nazionale e agire di conseguenza: ridefinire il lessico (fuori dal recinto della “lotta al terrorismo”), imporre condizionalità reali, interrompere la complicità materiale. Fino a quando non succederà, le navi, i talk show e gli “after-show” della ricostruzione resteranno la scenografia di un genocidio che prosegue, puntuale, mentre il mondo si esercita a parlare.

Sergio Filacchioni

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