Roma, 4 ago – C’è un ambientalismo che piace agli spot e alle multinazionali, quello che ti dice di salvare il pianeta comprando l’ultimo modello di SUV elettrico. E poi c’è un’ecologia che non fa sconti, che non cerca like né incentivi statali, che non vuole rendere sostenibile il sistema ma lo vuole abbattere. È l’ecologia di Gary Snyder, poeta e filosofo borderline della Beat Generation, oggi riproposto in Italia con uno dei sui pensieri più radicali: La pratica del selvatico, edito da Piano B.
La pratica del selvatico di Snyder
Gary Snyder non può certo essere accusato di essere un predicatore da green economy, né un testimonial della raccolta differenziata. È poeta, boscaiolo, monaco zen, montanaro, ecologista di stampo guerriero. Premio Pulitzer nel 1975, figura chiave della Beat Generation e amico di Kerouac (molto probabilmente è Lui il Japhy Ryder de I vagabondi del Dharma), ha incarnato con coerenza rara quella che oggi resta – nonostante la deriva di un certo ambientalismo – un’idea rivoluzionaria: l’essere umano fa parte di un ordine naturale più vasto, profondo, misterioso. Ma come suggerisce il titolo di questa raccolta di saggi scritti tra gli anni Settanta e Ottanta, Snyder non intende trasmettere una teologia della contemplazione, ma una “pratica” attiva che intreccia esperienza nei boschi, filosofia orientale, linguistica e critica spietata. In effetti, si parla di sradicamento e radicamento, di linguaggio e paesaggio, di spiritualità e resistenza. Si parla della wilderness, parola che nelle bocche degli ecologisti mainstream è diventata sinonimo di riserva naturale con bar ristorante. Ma per Snyder, no. Per lui è più consono parlare di wildness: l’ordine spontaneo delle cose, la struttura profonda che esiste prima della società industriale.
La wildness come chiave di lettura
“La natura selvaggia non è soltanto «la preservazione del mondo», – è il mondo.”
Snyder ha la capacità di scavare nelle parole come si scava nella terra. Rifiuta le definizioni addomesticate. Mostra come il concetto di “wild” sia stato colonizzato: da animale libero a animale insubordinato, da terra integra a terra improduttiva, da società armonica a società primitiva. Ma ribalta tutto: “wild”, scrive, è ciò che è autosufficiente, indipendente, non riducibile al controllo umano. È ciò che vive secondo il proprio ordine interno, senza bisogno di governi, pianificazioni, leggi scritte. È il Dao cinese, è il Dharma buddhista, è il Logos prefilosofico. La “wildness”, così come la intende Snyder, è presente anche dentro di noi. Non è relegata al 2% dei parchi naturali, ma esiste nei sogni, nei riflessi, nelle emozioni corporee, nel linguaggio. Esiste nella parte non amministrata della mente, dove non regna l’Io ma l’inconscio selvaggio, quello che immagina, canta, reagisce, senza calcolo. Ecco allora che la pratica del selvatico è un ritorno a casa: non alla civiltà, ma alla totalità perduta, all’essere parte del Tutto. Solo in questa dimensione l’ecologia assume tutt’altro significato, arrivando ad identificare non l’attivismo gretino, ma tutto il cosmos.
Una disciplina per la libertà autentica
“Parlare di natura selvaggia significa parlare di interezza, di integrità. Gli esseri umani sono usciti da una tale completezza, e considerare la possibilità di riattivare la nostra appartenenza all’Assemblea di Tutti gli Esseri non è in nessun senso una regressione.”
In effetti, la “pratica del selvatico” – così come la chiama l’autore – è prima di tutto quella che potremo definire una via iniziatica, ecologica e politica al tempo stesso. Non si tratta di salvare il pianeta, ma di salvarci dall’imbestiamento da gregge di nicciana memoria, dal mondo sterilizzato dei non luoghi, dal linguaggio neutro delle istituzioni, da una civiltà che ha smesso di ascoltare davvero la voce delle montagne, dei fiumi, degli animali e gli Dei. L’autore attacca, senza infingimenti, il progetto di sradicamento moderno: il lavoro de-territorializzato, la scuola astratta, le metropoli senza identità, il linguaggio che addomestica ogni pensiero divergente. La pratica del selvatico è una risposta integrale a tutto questo. È insieme ascesi e insurrezione: imparare di nuovo i nomi delle piante, vivere in un luogo reale, rispettare il ritmo delle stagioni, imparare dal mondo animale. È un atto di libertà, perché “essere selvatici” – per Snyder – non significa essere caotici, ma vivere senza padrone.
Non fuga, ma impegno attivo
“Abbiamo bisogno di una civiltà che possa vivere in modo pieno e creativo insieme alla natura selvaggia”.
Ma attenzione: La pratica del selvatico non è un manuale per hippy in cerca di slow-life, né un elogio della decrescita dolce o del ritorno alla candela. Snyder non rifiuta la tecnica in quanto tale, non idealizza un passato arcadico, non propone un ambientalismo da mercatino biologico. Quello che ci offre è molto di più: una disciplina interiore, un ordine etico ed estetico pre-politico, una postura che precede ogni ideologia e ogni programma. In queste pagine non troverete un’agenda elettorale o uno slogan da manifestazione: troverete invece una tenuta d’animo, una compostezza dell’essere che ci restituisce al mondo non come semplici riformatori, ma come rigeneratori di una parte viva e consapevole del cosmo. È questo il senso profondo della “pratica del selvatico”: non la fuga dalla civiltà, ma la riattivazione di ciò che in noi resiste alla sua corruzione.
Un trattato sulla forza?
“C’è un ordine sociale in tutta la natura – da molto prima che esistessero libri o codici legali.”
In questa prospettiva, La pratica del selvatico si rivela anche un trattato implicito sulla forza. Non la forza bruta, né la violenza tecnologica, ma quella dynamis originaria che è insieme forza del corpo, del paesaggio, del pensiero, dell’animale e del linguaggio. Snyder, pur parlando di alberi e animali, non cancella mai l’umano, né lo fa scomparire sotto il pretesto di una nuova moda filosofica che idolatra piante e funghi dimenticando l’uomo. Come ricorda chi oggi ripensa la natura come physis e dynamis, anche Snyder scrive per riposizionare l’uomo dentro un ordine vivo, non per dissolverlo. Non è una filosofia dell’ecologia morale, ma una filosofia della forza ontologica: forza del selvatico, forza dell’ascesi, forza della forma. È in questo che l’ecologia snyderiana può parlare anche a chi cerca, come Platone, una grammatica nobile della forza nel mondo. Snyder non fa pedagogia morale: fa pedagogia della potenza, come accadeva nelle palestre greche, dove il logos non era mai separato dalla dynamis. E allora ecco che si chiarisce il senso più profondo della wildness come ordine e del selvatico come pratica: insegnare a vivere significa trasmettere forza, non regole. Lasciare in eredità non parole, ma la capacità di stare al mondo con tenuta interiore, con forza, senza farsi addomesticare.
Snyder l’europeo
Parallelamente a quanto mostrato da autori come Dumézil, Faye o Venner – ognuno a suo modo esploratore della mentalità europea – anche Snyder sembra attingere a quella dimensione profonda e arcaica dell’identità che precede ogni formulazione politica. Pur venendo da un’altra tradizione, e non nominando mai gli dèi indoeuropei o le tripartizioni funzionali, Snyder finisce per toccare gli stessi nodi simbolici e strutturali: la natura come ordine cosmico, il selvaggio come forza non addomesticata, il paesaggio come radice del linguaggio. Snyder chiama in causa gli archetipi, le lingue dimenticate, le tradizioni animiste e la grammatica geologica dei luoghi. Parla con la voce delle montagne, ma non è un mistico: è un combattente della forma, uno che ha intuito che prima della politica viene la visione del mondo. In un tempo in cui ogni discorso è contaminato dalla metafisica dell’illimitato, La pratica del selvatico ci parla la lingua oscura del Cavaliere di Dürer: “Solitario, a passo fermo sul suo destriero, la spada al lato, il più celebre ribelle dell’arte occidentale cavalca tra i boschi selvaggi e i nostri pensieri sul suo destino, senza paura né supplica. Incarnazione di una figura eterna in questa parte di mondo chiamata Europa”.
Sergio Filacchioni