Roma, 10 nov – Era bastato un gioco di parole per scatenare l’ennesima crisi globale dell’indignazione. “Sydney Sweeney Has Great Jeans”: così recitava lo slogan della nuova campagna di American Eagle, con la star di Euphoria e Anyone But You come volto del marchio. Un claim apparentemente innocente, basato sulla somiglianza tra “jeans” e “genes” (geni). Ma per una parte della rete, e di certa stampa progressista, quel doppio senso non era affatto divertente: era “una celebrazione della genetica bianca”.
La Sweeney non si scusa per i suoi jeans
In poche ore, la pubblicità è diventata un caso politico. Su X (ex Twitter) si è parlato di “supremazia genetica”, “eugenetica”, “messaggi subliminali bianchi”. Alcuni commentatori hanno persino evocato il “ritorno del linguaggio hitleriano”. E come accade sempre più spesso, la corsa al boicottaggio è stata immediata. Solo che, come accade sempre più spesso, ha prodotto l’effetto opposto: l’azienda ha registrato un boom di vendite e la Sweeney è diventata uno dei volti più cliccati del web per settimane. La polemica sembrava archiviata finché GQ non ha deciso di riaprire la questione in una video-intervista pubblicata su YouTube. La giornalista Katherine Stoeffel ha chiesto all’attrice di commentare il significato della campagna, spiegando che “forse, in questo clima politico, i bianchi non dovrebbero scherzare sulla superiorità genetica”. La Sweeney, visibilmente stizzita, ha risposto con calma: “Penso che quando avrò un argomento di cui voglio parlare, le persone mi ascolteranno”. Una frase breve, priva di aggressività, ma sufficiente a scatenare una nuova ondata di critiche. Per molti utenti liberal, quella risposta è stata“una mancata condanna del razzismo”. Per altri, invece, una dimostrazione di autonomia: la scelta di non piegarsi al rituale della genuflessione mediatica di fronte alle congetture woke.
Un esempio didattico da far vedere alla nostra politica
Il caso Sweeney è un esempio didattico di come funziona oggi il ciclo mediatico del “woke outrage”, ma offre anche una possibile contromisura che non preveda scuse, pentimenti o compromessi (forse dovremmo far vedere il video di Sweeney a molti cervelloni di casa nostra). Un messaggio ambiguo (o percepito tale), un’ondata di accuse online, un coro che chiede scuse pubbliche, e infine l’inevitabile saturazione del pubblico. Tutto questo per una battuta di marketing che – secondo gli autori – non conteneva alcuna allusione razziale. Come ha ricordato Business Insider, American Eagle non ha mai ritirato la campagna né chiesto scusa, limitandosi a ribadire che “la frase si riferiva ai jeans, non ai geni”. E i numeri le hanno dato ragione. Il punto è che si può discutere all’infinito sul gusto di certe campagne pubblicitarie, ma l’idea che un gioco di parole possa essere “suprematista” mostra quanto la cultura del sospetto sia ormai automatica e irrazionale. Oggi non basta più non avere cattive intenzioni: occorre anche anticipare tutte le interpretazioni possibili di chi le cercherà comunque. È il trionfo del moralismo algoritmico, dove la paura di “offendere” vale più del significato reale delle parole.
Sweeney è diventata la meme face anti-woke
Sydney Sweeney non ha fatto proclami, non ha sfidato nessuno: ha solo scelto di non scusarsi e, molto semplicemente, ha cortocircuitato il sistema. E forse, in un’epoca in cui ogni personaggio pubblico deve recitare la liturgia del pentimento, quello sguardo tarantiniano è già una forma di coraggio. Di certo, è già meme. Perchè in fondo è il meme la moneta emotiva del nostro tempo: semplifica, ridicolizza, svuota, ma proprio per questo riesce a dire più di mille editoriali. E quella della Sweeney — calma, leggermente infastidita, impermeabile all’imbarazzo — è diventata la postura anti-woke per eccellenza: una meme face che vale più di qualsiasi dichiarazione, editoriale, articolo. Anche di questo.
Sergio Filacchioni