Roma, 16 dic – Il 30 gennaio 2014 aveva fatto scalpore la storia di Josè Salvador Alvarenga, pescatore di 36 anni proveniente da El Salvador ritrovato dopo 15 mesi alla deriva nell’Oceano Pacifico. Josè raccontò la sua vicenda a partire dal naufragio avvenuto nel novembre 2012 e della sua lunga avventura in compagnia di Ezequiel Cordoba imbarcatosi per 50 dollari e mai tornato dalla battuta di pesca. Proprio intorno alla vicenda di Ezequiel si sono sviluppate nuove polemiche sulla figura del superstite, trattato per lungo tempo come una celebrità; Josè Alvarenga è stato infatti accusato dai familiari del ventiduenne di essersi cibato del corpo del giovane, al quale hanno richiesto un risarcimento di un milione di dollari.
La versione dei fatti raccontata dal protagonista nel corso del tempo a molte televisioni e giornali, racconta di una burrasca che danneggiò il motore dell’imbarcazione e i sistemi di comunicazione, oltre a liberare in mare tutte le scorte. Il più giovane dei due si sarebbe in quel momento fatto prendere dal panico e proprio lo stesso Alvarenga gli avrebbe impedito di cadere in acqua. I due sarebbero dunque sopravvissuti grazie a pesci, uccelli e acqua piovana e la propria urina. Tuttavia il giovane, restio a cibarsi di carne cruda, si sarebbe gravemente ammalato e sarebbe morto di stenti poco dopo, per poi essere buttato in mare dal compagno di viaggio.
Le accuse di cannibalismo si inseriscono in un contesto nel quale già l’ex avvocato di Alvarenga aveva sporto denuncia contro l’assistito, appena dopo il cambio di studio legale di quest’ultimo per la cura di un libro-documentario del lungo naufragio. L’impressione, al di là di ogni ricostruzione, è che intorno alla stupefacente avventura ognuno miri a raccoglierne un piccolo tesoro. Al clamore mediatico tuttavia non è corrisposto un boom di vendite del libro, fermo a circa 1500 copie negli Usa. Chissà che la torbida luce del cannibalismo non faccia miracoli nel business.
Alessandro Catalano