Roma, 27 ago – Faceva caldo in Eritrea. Il sabbioso kahmsin spirava incessante penetrando le umili stamberghe, pudici zurià celavano le forme delle donne che sedute sui pagliericci sorseggiavano shai osservando i malinconici resti della farinata di ga’at. Del Paese di Punt, terra degli dei, rimaneva il ricordo nascosto nei tuguri anneriti dal sole. Dell’ebano di Axum restava solo il colore della pelle, invecchiata dalla malattia più che dal tempo.
Faceva caldo in Eritrea quando al cinema Impero un cono gelato rinfrescava le esotiche seduzioni di Sotto la croce del Sud, mentre al Dante si volava via con Luciano Serra pilota, rapiti dalla pindarica sceneggiatura di Rossellini. Fuori ronzavano zanzare pigre ed opache, mentre Teresa dal bar Zilli scriveva una cartolina: “sembra una piccola Italia! La luce è perfino la stessa, cambiano solo i profumi.”
Pochi anni bastarono per rendere questa terra la colonia italiana più moderna e ospitale. Il porto di Massaua divenne il principale del Mar Rosso. Da qui partiva la ferrovia verso la splendente Asmara, soprannominata “la piccola Roma”, e la Strada di Dogali metteva in collegamento la barriera corallina con la capitale eritrea, da cui poi si poteva imboccare facilmente la Strada della Vittoria verso Addis Abeba e da lì l’SS 12 alla volta di Mogadiscio. In pratica l’Italia fascista riuscì in pochissimi anni a costruire un complesso ma efficacissimo sistema di strade che consentiva agli autocarri di viaggiare in tempi ragionevoli e senza rischi dall’Oceano Indiano al Mar Rosso, evitando di far passare i mercantili dal Golfo di Aden, sottoposto alle sanzioni inglesi. Fiorirono fabbriche, laboratori, attività artigianali. I vicoli delle principali città erano disseminati di bar, gelaterie, pasticcerie.
L’Eritrea divenne ben presto la colonia con il maggior numero di italiani che trasformarono Asmara in una vera e propria fucina di urbanistica d’avanguardia, uno dei primi esempi di “città ideale”. L’architettura religiosa non trascurò nessun culto, prova ne furono la realizzazione della sinagoga, della splendida chiesa cattolica e di quella ortodossa con il campanile che riprendeva lo stile “conico” degli edifici tradizionali eritrei, seguendo l’esempio romano: assimilare, elaborare, superare. Ma soprattutto la grande moschea di Asmara, opera maestosa in stile moresco con la cupola centrale in cemento e vetro. E poi il sontuoso palazzo del governo, la piscina Mingardi, i cinema, il magnifico teatro con portico in stile rinascimentale e l’interno liberty affrescato finemente da Saverio Fresa, le innumerevoli abitazioni classicheggianti, le ville moderniste e gli alberghi come l’Hotel Salaam, esempio notevole di architettura razionalista.
Praticamente tutte le costruzioni coloniali si possono ancora apprezzare ad Asmara. L’architetto Naigzy Gebremedhin, coordinatore del Progetto Beni Culturali, parla di “400 edifici italiani” relativamente ben conservati per i quali il governo eritreo prevede un piano di restauro, puntando al prestigioso riconoscimento UNESCO di “patrimonio dell’umanità”. Una denominazione che garantirebbe all’Eritrea sviluppo turistico e fondamentali finanziamenti.
Nel frattempo però l’economia ristagna, dopo trent’anni di guerra con l’Etiopia e la raggiunta indipendenza nel 1993 l’Eritrea ha avuto un solo governo, quello del leader maximo Isaias Afewerki. Buona parte della popolazione in età lavorativa è fuggita e Khartoum, la vicina capitale del Sudan, conta oggi 300 mila abitanti eritrei. Un numero impressionante se consideriamo che in tutta l’Eritrea vivono poco più di 5 milioni di persone. Le donne che muoiono di parto aumentano giorno dopo giorno, la malnutrizione infantile è sempre più una triste realtà, i posti di lavoro sono pochi. Eppure scarseggiano anche le filantropiche ONG occidentali, spesso osteggiate dal governo di Asmara che ha quantomeno garantito stabilità e sicurezza.
Non mancano invece gli speculatori. Alcune società canadesi hanno ottenuto concessioni nella Piana del Sale lungo il confine con l’Etiopia ed estraggono potassio, fondamentale per fertilizzanti ed esplosivi, in tutto il triangolo di Afar. La Cina non sta a guardare e concede prestiti, come sempre, come ovunque. Dal 2001 Pechino ha avviato un piano di sviluppo finanziando la costruzione di un ospedale e fornendo al governo eritreo macchine agricole e assistenza tecnica. Le montagne ricche di oro e di uranio sono per lo più controllate dall’Iran che ha investito in Eritrea circa 35 milioni di dollari per lo sfruttamento dei giacimenti. Ma come il colonialismo italiano insegna è la posizione geografica di questa nazione ad essere cruciale. Controllare lo stretto di Bab el-Mandeb, la porta della lamentazione funebre, significa garantire il trasporto di greggio. E come segnala la società di intelligence americana Stratfor se Teheran agisce, Tel Aviv non sta a guardare. Difatti Israele ha installato una postazione di ascolto sull’Emba Soira e si è assicurato un attracco per navi nell’arcipelago delle isole Dahalak sul Mar Rosso, strategica postazione prima che incantevole meta per sub. Poi c’è l’Italia, che osserva impotente gli sbarchi sulle proprie coste dei disperati fuggiti dalla guerra civile e che la fame ha scacciato a sua volta dal Sudan.
Fa sempre caldo in Eritrea, ma Luciano Serra non vola più al cinema Dante.
Eugenio Palazzini