Roma, 25 mar – “Non ci sono più soldi”, “non facciamo giocare i giovani”, “non abbiamo gli stadi moderni”, “la colpa è degli ultras”… Tutti qui i motivi della crisi del calcio italiano, come vogliono farci credere alcuni commentatori, oppure l’ennesima figuraccia europea delle squadre di casa nostra nasconde un malessere più profondo?
Proviamo a vedere.
Partiamo analizzando il caso del Napoli. Il presidente De Laurentiis sceglie Benitez come guida tecnica per la squadra partenopea. Motivazione? Dare una vocazione europea agli azzurri. Nonostante sia già fuori dalle competizioni internazionali, probabilmente è vero che il Napoli è la squadra italiana che meglio si è comportata in Europa.
Allo stesso tempo, però, sembra evidente come il gap con i top team europei sia pressoché invariato, chiaro segno che non è sufficiente affidare la squadra a un allenatore straniero per ottenere risultati duraturi. Servirebbe, in altre parole, più programmazione.
Per esempio, a mio avviso, sarebbe stato molto più fruttifero investire per la costruzione di strutture all’avanguardia da destinare al settore giovanile, al momento costretto a girovagare tra campetti di periferia.
Come si fa a parlare di giovani se a Napoli, per la loro crescita, vengono destinati solo 300 mila euro l’anno a fronte di 15 milioni impiegati dal Barcellona per la sua Cantera?
Perché è facile parlare di “soldi”, ma se andiamo a analizzare la rosa del Barcellona vediamo che i migliori giocatori si sono formati all’interno della Cantera: Valdes, Jordi Alba, Piqué, Fabregas, Iniesta, Xavi, Iniesta, Busquets, Pedro, Messi, Cuenca, solo per fare alcuni esempi. E allo stesso tempo potremmo citare i tanti giocatori cresciuti coi Blaugrana e poi venduti, con importanti entrate nelle casse societarie. Un esempio su tutti: Thiago Alcantara.
Come se non bastasse, gli allenamenti nei nostri settori giovanili presentano evidenti difetti. Non può essere un caso se negli ultimi 24 incontri giovanili contro la Spagna, le nostre nazionali hanno ottenuto 22 sconfitte e 2 pareggi. E devono fare riflettere anche i risultati con la selezione belga under 15 e under 16: due pareggi e due sconfitte nell’ultima stagione.
Questo perché campioni non si nasce, si diventa. I giocatori vanno formati, coltivati. È quindi questa un’altra grande pecca del calcio italiano: siamo ancora legati a metodologie di allenamento antiquate, siamo indietro di almeno 20 anni rispetto a paesi come la Spagna, e non riusciamo più a crescere campioni in casa.
Altro aspetto viene fatto emergere dall’ultimo Clasico spagnolo, finito 4-3 per il Barcellona: in quanti condividono il parere di Pizzul, il quale su Fox ha più volte ribadito che la partita perfetta deve finire 0-0? Quanti tecnici italiani preferiscono segnare un gol in più degli avversari invece che prenderne uno in meno?
Anche sotto questo punto di vista, non può essere un caso che l’allenatore italiano che sta ottenendo maggiori successi, almeno in campo nazionale, è quell’Antonio Conte che, quando Bacconi gli chiese il perché dei tanti contropiedi subiti, rispose: “E’ un rischio calcolato. Se attacchi con tanti uomini crei molti più pericoli agli avversari, ma rischi di subire più contrattacchi”.
Appare chiaro, allora, come il nostro calcio abbia un grosso difetto: al suo interno si respira paura del rischio, mancanza di coraggio. Coraggio di fare investimenti per il futuro. Coraggio di proporre un calcio nuovo. Coraggio di cambiare le metodologie di allenamento.
Coraggio che, per esempio, contraddistingue l’ultimo allenatore campione d’Europa con una squadra italiana: quel José Mourinho amato e odiato, tanto studiato ma forse mai capito. Un allenatore che, a detta sua, ha costruito i suoi successi su una metodologia di allenamento totalmente differente a quella della maggioranza degli allenatori. Una metodologia che si avvicina molto a quella dei suoi grandi antagonisti del Barcellona. Una metodologia che, tra le altre cose, non presuppone la presenza di preparatori atletici.
Per questi motivi sostengo che solo ritrovando coraggio il calcio italiano può risorgere.
Dobbiamo tornare ad allenare i nostri giocatori a prendersi rischi e responsabilità. Dobbiamo avere il coraggio di prenderci rischi, di cambiare, di investire.
Dobbiamo rivoluzionare le nostre metodologie di allenamento. Dobbiamo abbandonare un calcio vecchio di almeno 20 anni, fermo alle, allora innovative, idee sacchiane.
Dobbiamo ripartire, anche nel calcio, dal manifesto del futurismo:
1.Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2.Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali del nostro calcio.
3.Il calcio esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4.Noi affermiamo che la magnificenza del calcio si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità.
Solo così possiamo tornare a essere i migliori. Perché nel nostro DNA c’è una mentalità vincente che in altri paesi non hanno. Ma che deve essere coltivata.
Renato Montagnolo
2 comments
[…] far riflettere gli addetti al lavoro in Italia: come già scritto in un precedente articolo (http://www.ilprimatonazionale.it//2014/03/25/flop-europeo-per-il-calcio-italiano-ripartiamo-dal-futur…), la crisi del calcio nostrano va principalmente individuata nella mancanza di investimenti e di […]
[…] ultimi anni. Sia chiaro, non vogliamo fare l’elogio del calcio italiano. Calcio che, come già detto deve trovare nuove energie per tornare […]