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L’Eritrea e il ciclismo, ovvero una passione tutta italiana

by Marco Battistini
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Roma, 9 ago – Fausto Coppi, Gino Bartali, Felice Gimondi o l’Icaro delle due ruote Marco Pantani. Poi Moser, Saronni, in tempi più recenti Nibali. Sì, siamo per tradizione un paese di formidabili passisti, grandi velocisti, indimenticati scalatori. E, come succede in tutte le pratiche nelle quali primeggiamo, abbiamo contribuito ad esportare tale attività nel mondo. Con un caso particolare, quello dell’Eritrea: nella nostra ex colonia infatti il ciclismo è una passione…tutta italiana

Quando c’era buongiorno…

In senso storico nella lingua italiana una colonia può essere considerata come una terra lontana nella quale un gruppo di cittadini si stabilisce per “abitarla, coltivarla, imporre regole e abitudini della madrepatria”, conservando con quest’ultima legami sia giuridici che economici. Come fa notare Alberto Alpozzi nell’idioma d’oltremanica il termine viene ridotto a “paese controllato da un altro più potente”, mentre per i francesi trattasi semplicemente di “territorio occupato e amministrato al di fuori dei confini nazionali”. Importanti differenze semantiche che – con ogni evidenza – hanno avuto il loro differente riscontro nella realtà del percorso storico. Come recita un detto eritreo: “quando c’era buongiorno si mangiava tutto il giorno, da quando c’è thank you non si mangia più”.

Impronte ancora tangibili

C’è chi ha costruito e civilizzato e chi – al contrario – ha agito in maniera diversa. Ad Asmara, ad esempio, tra edifici ed infrastrutture l’impronta italiana è ancora tangibile. Tanto che nel 2017 le Nazioni Unite l’hanno dichiarata patrimonio dell’umanità proprio grazie al nostro operato, definito “un esempio eccezionale di modernismo”. A proposito della capitale: qui le strade “italiane”, insieme alla particolare conformazione geografica, hanno fatto le fortune del ciclismo eritreo, un unicum nel continente nero (con l’eccezione particolare del Sudafrica).

L’Eritrea e il ciclismo: una storia coloniale

“Noi eritrei ereditiamo la passione dalla dominazione coloniale italiana” ha confermato un paio di anni fa Biniam Girmay, maglia verde dell’ultimo Tour de France. “Fossi un calciatore non sarei così popolare”, sempre per dirla con il corridore classe 2000 che gli appassionati ricorderanno per il singolare ritiro dal Giro del 2022 (nei festeggiamenti post vittoria di tappa si colpì l’occhio sinistro con il tappo dello spumante). 

Al ritorno dall’Esagono – dove ha partecipato anche ai giochi a cinque cerchi – è stato accolto in patria come un vero eroe nazionale, dimostrazione di come il ciclismo rappresenti una tradizione davvero ben radicata. Nel 2015 i tifosi, intervistati dalla Gazzetta dello Sport, hanno paragonato la disciplina ad una religione. Un po’ come il calcio in Brasile per intenderci.

Le prime biciclette sono arrivate dall’Italia liberale, con il fascismo iniziarono le gare agonistiche. Primi africani a partecipare alle Olimpiadi di categoria – negli anni ‘60, ma per ovvie ragioni nelle file etiopi – i ciclisti di questa parte del Corno possono allenarsi sfruttando “qualche” vantaggio naturale: poco deserto, tanta montagna, importanti pendenze e clima secco. Daniel Teklehaimanot ha ringraziato pubblicamente l’Italia per aver portato in Eritrea il ciclismo. Anche il ciclismo, aggiungiamo noi che non ci occupiamo solo di sport.

Marco Battistini

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