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Caos creativo in Libia, gli Usa spingono l’Italia all’intervento

by Armando Haller
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Libia mapRoma, 6 dic – Poche centinaia di miglia marine dividono l’Italia dalla Libia, dove ormai da molti mesi si registra una situazione di stallo che non potrà trascinarsi a lungo. Le parti in gioco sono tante, forse troppe, in uno scenario che non si è più stabilizzato dopo la caduta di Gheddafi, nell’ottobre del 2011. Tant’è vero che “dopo quattro anni di guerra civile il settore energetico corre verso la disintegrazione completa, con il rischio del collasso economico per il paese e di una nuova ondata di rifugiati per l’Europa” secondo un report dell’International Crisis Group, pubblicato pochi giorni fa e rilanciato da un lungo articolo del Foglio che ha riaperto il dibattito sulla questione libica.

La strategia del Califfato in Libia

Le parti in gioco dicevamo, fra le altre, quella in maggior movimento sembra lo Stato Islamico, che disporrebbe di una forza militare valutata fra i 2.000 e i 4.000 combattenti. Da diversi mesi infatti l’Isis, in difficoltà sul fronte siro-iracheno, ha aumentato l’impegno in Libia, secondo uno schema collaudato che si articola in almeno tre fasi.

Primo, la liberazione dei prigionieri: come accadde nel 2012 e nel 2013 nelle carceri irakene di Tikrit e Abu Ghraib, lo scorso settembre i miliziani hanno lanciato un assalto all’aeroporto Mitiga di Tripoli, con l’obiettivo di liberare un emiro che sarebbe fra gli organizzatori dell’attentato all’hotel Corinthia, dove nel gennaio del 2015 morirono dieci persone. “Sono morti tre dei nostri uomini migliori, ma abbiamo ucciso i quattro intrusi e nessuno di loro era libico: un marocchino, un tunisino, due sudanesi” riferisce il comandante fedele al governo di Tripoli raggiunto dal Foglio. Un elemento, quello della multinazionalità degli assalitori, assolutamente non secondario e che testimonia come il teatro libico sia tanto maturo da attirare miliziani da oltre confine.

Secondo, una serie di omicidi mirati a ridurre la concorrenza prima di una vera e propria discesa in campo: “se vengono a catturare un uomo soltanto in un singolo appartamento, prima circondano il palazzo intero, piazzano cecchini sui tetti di fronte, creano un cordone di sicurezza nelle strade tutto attorno fino a un chilometro di distanza, in modo che il bersaglio non possa scappare, se sfugge alla squadra che lo cerca sarà preso ai posti di blocco” riferisce una donna agli inviati del quotidiano diretto da Claudio Cerasa. È quanto già accaduto a Sirte e quanto sta accedendo a Agedabia, snodo fondamentale per le risorse petrolifere a metà strada fra Sirte e Bengasi, ben collegata ai confini meridionali del Paese da dove arrivano i contingenti che ingrossano le fila degli jihadisti (Niger, Ciad, Sudan).

Terzo, l’individuazione di una roccaforte. In questa fase, Sirte e i suoi sobborghi orientali nella zona di Harawa sarebbero considerati la fortezza dello Stato Islamico in Libia, una zona di sicurezza dove trasferire i vertici militari in caso di maggiori difficoltà sul fronte mediorientale. Ma l’avanzata dell’Isis procede anche verso Nawfal e Bengasi, puntando almeno in questa fase sulla fascia costiera centrale fra Tripoli e Tobruk.

Il petrolio libico

Il tutto con l’obiettivo di prendere il controllo, entro l’inizio del prossimo periodo di Ramadan (luglio 2016) della cosiddetta mezzaluna petrolifera, la fascia di territorio delimitata dalle città di Bengasi e Sirte, che si estende per diverse centinaia di chilometri nell’entroterra (fino alla raffineria di Sarir e ai pozzi di Waha). Ancora una volta il piano sembra replicare quanto già accaduto in Siria, dove tuttavia lo sbocco a valle, ovvero la via di commercializzazione del petrolio, era assicurato principalmente dalla permeabilità del confine turco. In Libia la situazione è più difficile perché il greggio può uscire solo attraverso il trasporto marittimo ed è qui che saltano fuori alcuni elementi che ci avvicinano agli altri fronti attivi sul campo.

Il controllo dei terminal da cui, nella zona costiera al centro della Libia, partono le petroliere resta appannaggio delle milizie agli ordini di Ibrahim Jadran che, oltre al governo di Tobruk (riconosciuto dai Paesi occidentali), avrebbe trovato un’intesa anche con lo Stato Islamico. Lo stesso Jadran che nel 2014 ha dato mandato a una società di consulenza americana, la Dixon Mason, per curare le proprie relazioni al Congresso, e che ha un fratello, Osama, ben inserito negli ambienti jihadisti libici.

L’Occidente

Dal canto loro i Paesi occidentali non sono di certo estranei a una situazione che, seppur di stallo, può riservare repentine evoluzioni. Gli Usa, insieme agli inglesi e ai francesi, sono presenti con proprie unità di terra nella regione meridionale del Fezzan, da dove riescono a monitorare i già citati flussi di uomini da Niger, Ciad e Sudan. Sempre gli Stati Uniti, secondo l’International New York Times, intensificheranno a breve i bombardamenti e lo stesso farà la Francia. Il suo Ministro della Difesa Yves le Drian ha infatti ammesso alla Cnn che il momento di bombardare Sirte potrebbe essere molto più vicino di quanto si pensi.

Assente l’Egitto, che sembrerebbe aver accantonato l’idea di un certo coinvolgimento nel teatro libico e in quello siriano, quantomeno per meri interessi di frontiera, dopo aver ricevuto un lauto finanziamento ad hoc dagli Emirati arabi.

Il ruolo dell’Italia

83224732515042012142219E l’Italia? Secondo il “western official” intervistato dal Foglio, alcuni uomini delle forze speciali italiane sarebbero impegnati sulla costa occidentale, vicino al confine con la Tunisia e alle piattaforme dell’Eni, fra Zuwara e Sabratha, per preparare un intervento di terra del nostro esercito. Dopo aver registrato l’impasse su un impegno in Irak infatti “gli Stati Uniti stanno facendo pressione sull’Italia per un’azione militare in Libia“. Impossibile, d’altronde, immaginare che il duo Pinotti-Gentiloni abbia l’ardire di imbarcarsi in tali avventure senza l’egida a stelle e strisce. Una presenza nel Paese, quella italiana, di lungo corso e che ha già contribuito a guidare i bombardamenti francesi nel 2011 quando “senza le Sof (forze speciali ndr) italiane, la Nato non avrebbe quasi azzeccato un bersaglio“. E ancora in grado di mantenere, con la propria ambasciata, l’unico presidio occidentale nei momenti più cruenti della guerra civile, almeno fino al febbraio 2015, quando la Farnesina autorizzò il rimpatrio del personale italiano.

L’Italia va alla guerra? Forse, le pressioni Usa fanno sempre un certo effetto dalle nostre parti e l’allerta attentati diramata nel nostro Paese e in Gran Bretagna (altro attore tradizionalmente presente nell’area mediterranea) non fa altro che spingere il Governo a valutare una tale possibilità.

Il caos creativo

Proviamo a riassumere: l’Isis è in difficoltà in Siria e in Irak e per questo fa la voce grossa in Europa (con gli attentati di Parigi) e accelera le operazioni in Libia, dove la Nato nel 2011 ha spodestato un regime stabile e sostanzialmente innocuo per l’Occidente, almeno negli ultimi anni, tanto da diventare un partner troppo privilegiato per l’Italia. Dalla Libia il Califfato potrebbe tenere sotto scacco il mercato petrolifero regionale (il Paese è ricco anche di altre materie prime importanti), mettendo il Vecchio Continente ancor più in difficoltà dopo il raffreddamento delle relazioni con la Russia (l’Europa sarà chiamata a rinnovare le sanzioni nel mese di gennaio) e il perdurante contesto macroeconomico recessivo.

A questo punto Usa, Francia e di riflesso l’Italia, sarebbero propense all’intervento diretto nel Paese, non si sa bene con quali obiettivi visto che la coalizione occidentale in Siria, escludendo l’intervento di Mosca, ha raggiunto risultati molto modesti.

Senza una regia veramente coesa ed eterodiretta, realmente interessata alla stabilità regionale, le conseguenze di un’operazione militare potrebbero rivelarsi disastrose, con la Libia che rischierebbe di trasformarsi in un pantano a pochi metri dalle nostre coste e con traffici illeciti, fra i più remunerativi al mondo quali sono quello di esseri umani e di armi, difficilmente controllabili. Chi guadagna da questi traffici e dal cosiddetto caos creativo? Che sia proprio questo il colpo di grazia che l’America vuole assestare all’Europa?

Armando Haller

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