Roma, 5 ago – Spesso si parla (giustamente) della politica estera degli Stati Uniti utilizzando formule come “imperialismo a stelle e strisce” e simili. Malgrado la correttezza di tali formule, spesso i problemi iniziano quando si ricercano le origini del fenomeno in questione. Nella vulgata comune l’inizio delle pretese di dominio degli Usa sul mondo va fatta risalire alla seconda guerra mondiale, la quale, effettivamente, ha consacrato gli Stati Uniti a superpotenza mondiale, anche se in quel momento rivaleggiante con l’Unione Sovietica. Se, da un lato, è assolutamente vero che la vittoria nel secondo conflitto mondiale è il momento di imposizione definitiva su una fetta consistente del mondo del dominio militare, economico e culturale americano, dall’altro sarebbe un errore grossolano credere che questo avvenga di punto in bianco nella prima metà del ‘900.
Per carità, si potrebbe addirittura sostenere, come evidenziato da Adriano Scianca nel suo Europa vs Occidente, che l’inizio di una certa mitologia americana ha il suo punto d’avvio nei Padri Pellegrini sbarcati sulla costa americana nel ‘600, i puritani inglesi che hanno fondato la loro opera sul rifiuto dell’Europa. Ma volendo rimanere su un piano strettamente di analisi storiografica, andremo a focalizzare su tre passaggi tra loro collegati. Iniziando con la cosiddetta Dottrina Monroe.
“Europei tornate in Europa”
Era il 2 dicembre 1823 quando l’allora presidente James Monroe, durante l’annuale “discorso sullo stato dell’Unione”, enunciò il messaggio ideologico che avrebbe guidato l’azione politica degli Stati Uniti per quasi ottant’anni, esclusa forse la breve parentesi della Guerra Civile (1861-1865). Con quel discorso, il presidente Monroe disse a chiare lettere che gli Stati Uniti non avrebbero più accettato alcuna ingerenza europea in tutto il continente americano. Sul momento questa cosa venne persino recepita positivamente dalle nazioni sudamericane ancora in mano alle potenze europee (in particolare la Spagna). L’obiettivo di Monroe era quello di stabilire una serie di “relazioni privilegiate” con i paesi dell’America Latina che andavano via via affrancandosi dal dominio coloniale europeo. In altre parole, gli Stati Uniti avrebbero dovuto sostituirsi alle nazioni europee nel ruolo egemonico nel continente americano.
E questa idea venne perseguita concretamente, sia con la tessitura delle “relazioni privilegiate” con le nazioni latinoamericane, sia con la continua espansione verso ovest degli Stati Uniti. Quest’ultima cosa, tra l’altro, la creazione di sempre nuovi stati all’ovest, fece da concausa allo scoppio della Guerra Civile, quando si pose il problema se permettere o vietare la schiavitù nei nuovi stati dell’ovest. Infatti, sia gli stati del Nord che quelli del Sud erano ovviamente d’accordo sulla necessità dell’espansione degli Usa, ma per motivi diversi. Per gli stati del Nord la creazione di nuovi spazi ad ovest avrebbe dovuto essere la valvola di sfogo per la massa di immigrati (irlandesi, polacchi, tedeschi e più tardi anche italiani) che si stava riversando sulle coste del Nord, in particolare a Boston e New York. Per gli stati del Sud invece l’espansione ad ovest voleva dire allargare il territorio disponibile per creare sempre più terra coltivabile, dal momento che la Rivoluzione Industriale in corso richiedeva nelle fabbriche d’Europa sempre più quantitativi di quella che ormai era la monocoltura del Sud: il cotone.
Per capire quanta forza ebbe questa volontà politica di espansione basta pensare a come venne costituito lo stato del Texas: nel 1846 gli Stati Uniti intervennero militarmente contro il Messico per la disputa con lo stato centroamericano sulla possibilità di annessione della Repubblica del Texas da parte degli USA. La Repubblica del Texas era infatti uno stato schiavista che si era staccato dal Messico (che aveva invece abolito la schiavitù): gli USA, quindi, sotta la presidenza di Knox Polk (democratico rappresentante degli interessi del Sud agricolo) videro la possibilità di allargarsi ulteriormente annettendo lo stato secessionista. E così fu: dopo due anni di guerra gli USA trangugiarono un enorme boccone, in cui oltre al Texas confluirono territori che in seguito andranno a costituire gli stati del New Mexico, del Colorado e del Kansas.
Alla Dottrina Monroe e all’espansionismo Usa si aggiunse anche un nuovo fattore ideologico- simbolico: l’idea di Destino Manifesto.
Il Destino Manifesto
Nel 1845, a ridosso della crisi Messico-statunitense sul Texas e delle dispute con il Regno Unito sul territorio dell’Oregon, un giornalista, John O’ Sullivan, coniò per primo l’idea di Destino Manifesto. Scrisse infatti O’ Sullivan sul suo quotidiano, il New York Morning News:
“E tale rivendicazione è per diritto del nostro Destino Manifesto di diffonderci e possedere l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande esperimento di libertà e di autogoverno federato, che ci è stato affidato”
Tuttavia, O’ Sullivan non è l’inventore di un concetto ex novo: ha semplicemente dato un’etichetta ad un sentimento diffuso da tempo nella politica e nella società americana dell’Ottocento. L’idea che fosse inevitabile (destino) ed evidente (manifesto) la missione degli Stati Uniti di allargare la propria influenza non tanto a livello territoriale per un ingrandimento fine a sé stesso, ma per allargare il proprio sistema di valori ad una porzione sempre più grande del mondo.
Se quindi la Dottrina Monroe fu il primo passo per l’azione concreta di egemonia internazionale statunitense sotto il profilo economico-militare, il Destino Manifesto è senz’altro l’avvio della battaglia per il dominio culturale degli USA sul mondo (o almeno su una grossa fetta di esso). La Dottrina Monroe però, affiancata al Destino Manifesto, lanciò definitivamente l’azione imperialista statunitense solo quando fu rivista e applicata dal presidente Theodore Roosevelt.
Il Corollario Roosevelt e il “Grosso Bastone”
Salito alla presidenza a inizio XX secolo, Theodore Roosevelt fu forse il primo applicatore efficiente della Dottrina Monroe come linea guida in materia di politica estera. La sua rivisitazione della Dottrina Monroe è il punto di svolta in cui si passa da un generico rifiuto delle intromissioni europee nel continente americano ad una esplicita volontà di egemonia statunitense nelle Americhe, come “poliziotti del continente”. Tale aggiunta, chiamata infatti “corollario Roosevelt”, venne sintetizzata così dallo stesso presidente in un discorso al Congresso nel 1904:
“Stante la Dottrina Monroe, comportamenti cronici sbagliati nel continente americano richiedono l’intervento di polizia internazionale da parte di una nazione civilizzata”
A questa aggiunta alla Dottrina Monroe, Theodore Roosevelt affiancò un altro elemento ideologico- pratico: la cosiddetta “politica del grosso bastone”. Con tale espressione si intendeva allora (e si può intendere ancora oggi) il modus operandi degli USA in materia di relazioni estere: portare avanti una politica in teoria basata su negoziati pacifici, ma affiancando a questi ultimi la minaccia di un “grosso bastone”, ovvero la minaccia di un intervento militare degli Stati Uniti.
L’esempio lampante di questa politica è la situazione cubana ai primi del XX secolo e la conseguente emanazione dell’Emendamento Platt: dopo la Guerra ispano-americana infatti, con tale atto, gli Stati Uniti posero le durissime condizioni per il ritiro delle truppe da Cuba, assicurandosi così un punto d’appoggio stabile nell’isola caraibica (il “giardino di casa” come venne definito dagli americani). In tale emendamento, al punto 5, era contenuta la clausola che sanciva l’obbligo per Cuba di vendere o affittare agli USA siti per depositi e basi navali: la principale di queste, come si può immaginare, fu ed è tuttora Guantanamo.
Imperialismo americano: come reagire?
Insomma, come abbiamo visto, l’imperialismo americano non nasce ieri. Non sorge di punto in bianco con la vittoria alleata nel secondo conflitto mondiale: quella è stata semmai l’ultima tappa, con cui gli Stati Uniti sono passati da un’egemonia continentale ad una mondiale, imponendosi non solo in Europa ma anche nell’Oriente (emblematico in tal senso il processo di occidentalizzazione del Giappone). Le basi che hanno portato a questo dominio su scala mondiale degli Usa c’erano già nelle premesse da cui sono partiti, combinando i tre fattori che abbiamo esaminato: come porsi nella propria area geografica (la Dottrina Monroe), come rapportarsi con i vicini di casa (la politica pacifico-aggressiva del Grosso Bastone di Roosevelt) e dove si vuole arrivare (il Destino Manifesto).
A questo punto rimane da chiedersi: come può l’Europa liberarsi da ogni imperialismo (tanto quello russo quanto quello americano) e riprendere il suo ruolo di attore protagonista della storia? Forse davvero il primo passo può essere davvero porsi le tre domande appena citate:
1) come ci poniamo nel nostro continente, l’Europa?
2) come ci rapportiamo coi nostri vicini?
3) dove vogliamo andare?
Non si tratta, onde fugare ogni dubbio, di “imitare il nemico”, è qualcosa di più: è usare gli occhi del nemico come specchio per fondare la propria autocritica e lanciarsi di nuovo nella mischia della storia.
Enrico Colonna