Roma, 12 mag – Parigi ci osserva con diffidenza, a tratti con aperta ostilità. Ma sabato 10 maggio, sotto un cielo limpido e un’aria pesante, il centro della capitale ha dovuto fare i conti con qualcosa che non si aspettava: la presenza silenziosa, disciplinata e determinata di migliaia di militanti venuti a ricordare Sébastien Deyzieu.
Al corteo di Parigi in memoria di Sébastien Deyzieu
La storia di Sébastien Deyzieu, giovane militante di 22 anni, si colloca tra quelle figure che per molti rappresentano simboli viventi della repressione politica. Il 7 maggio 1994 partecipò a una manifestazione organizzata da movimenti nazionalisti francesi, tra cui il GUD e le Jeunesses Nationalistes Révolutionnaires, contro le celebrazioni filoamericane previste per il 50º anniversario dello sbarco alleato. Nonostante il divieto imposto all’ultimo momento dal prefetto di Parigi – su pressione del ministro degli Interni Charles Pasqua – i manifestanti decisero comunque di radunarsi. La polizia intervenne rapidamente e con forza, scatenando cariche e arresti. Deyzieu, nel tentativo di evitare il fermo, cercò rifugio in un palazzo in Rue des Chartreux. Poco dopo precipitò da un’altezza di diversi piani in circostanze mai chiarite. Morì in ospedale due giorni dopo, il 9 maggio. Da allora, ogni anno, il suo nome torna a marciare con chi non accetta di dimenticare, grazie al lavoro del Comité du 9 Mai: oggi gli organizzatori del C9M parlano di oltre duemila partecipanti, un numero impensabile solo pochi anni fa, quando – come ricorda Raphaël Ayma, attivista del gruppo identitario provenzale Tenesoun – «nel 2017 il Comitato del 9 Maggio era composto da appena 80 persone».
A Parigi, l’Europa che cammina
Poche volte si ha la netta, quasi fisica, sensazione di appartenere a qualcosa. Di essere nel posto giusto, nel momento giusto, circondato da chi condivide non solo idee ma anche visioni, battiti del cuore, prospettive di mondo. Sabato, quella sensazione era nitida. Il corteo che avanza silenzioso, rotto solo dal ritmo costante di due tamburi. Nessuno parla, ma ogni passo dice molto più di mille parole. Si attraversavano quartieri patinati: quelli della Parigi da cartolina, quelli che sembrano rifiutare a prescindere la presenza di così tante bandiere nere e così tanti militanti. Qualcuno urla insulti, altri ci fissano, a metà strada tra la fascinazione e l’incredulità. In ogni caso, nessuno può ignorare una fila ordinata che taglia la città come una lama e che imprime molto bene nella mente di chiunque un concetto basilare: non esistono vie, quartieri o città inviolabili. Poi, d’un tratto, il grido che spezza il silenzio: “Europe! Jeunesse! Révolution!” Tre parole che non sono uno slogan, ma un orientamento, un’attitudine dello spirito. Per chi c’era, suonano come una carica: un richiamo collettivo, un segnale che non si è soli, che c’è un filo invisibile che lega chi cammina oggi a chi ha camminato prima, e a chi lo farà domani. L’Europa reale non vive nei vertici né nei compromessi delle istituzioni. Vive nei corpi in movimento, in chi prende posizione anche quando non ha alcuna rappresentanza. È questa la forza del gesto politico: esserci. Fisicamente, concretamente. In un’epoca che disintegra ogni legame, che tutto vuole appiattire, il solo fatto di camminare insieme, nello stesso ritmo, sotto le stesse bandiere, è già un atto che cambia le cose e sconvolge il continuum spazio-temporale.
Non assediati ma assedianti
C’è un punto, durante il corteo, in cui hai la sensazione opposta a quella che ti aspetteresti. Gli antifascisti parigini sparano petardi, provano a forzare i cordoni della gendarmeria, tentano invano di arrivare a contatto con un corteo che molto probabilmente li avrebbe rispediti indietro con qualche ricordino indelebile. Ma è proprio in quel momento che capisci che non siamo noi quelli accerchiati. Siamo noi a premere, a creare spazi, a conquistare metri di significato in una città che credeva di averci cancellati. Siamo noi a tracciare il perimetro, a forzare l’attenzione, a costringere chi ci disprezza a vederci e reagire in maniera scomposta. Camminando, creiamo uno spazio che prima non c’era, e che da quel momento in poi non può più essere ignorato. In fondo, è lo stesso spirito che anima le marce del 7 gennaio a Roma o le commemorazioni milanesi per Sergio Ramelli: la presenza come forma di libertà. Non si tratta di numeri, di sigle, di visibilità mediatica. Si tratta di esserci. Di affermarsi senza chiedere il permesso. Di prendersi il diritto di esistere, in mezzo a un mondo che preferirebbe voltarsi dall’altra parte.
Abbassate le serrande che noi siamo ancora qui
“Quanta gente già sperava di non rivederti più / Abbassate le serrande che noi siamo ancora qui, ancora qui, ancora qui!”. Cantavano così gli Intolleranza nel 1995, pochi mesi dopo la morte di Deyzieu. È una profezia realizzata. Siamo ancora qui. Nessun partito ci rappresenta. Nessuna istituzione ci accoglie. Ma ci siamo. E il fatto stesso di esserci è già una forma di vittoria. In un’epoca incorporea fatta di simulacri e apparizioni digitali, i nostri piedi, le nostre mani e i nostri cuori sono il miglior antidoto alla cancellazione. E così, ancora una volta, anche questo maggio – come ogni maggio – la memoria ha camminato. Forte. Dritta. Viva.
Sergio Filacchioni