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Cristiani contro pagani. La guerra della Chiesa al politeismo europeo

by Corrado Soldato
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Chiesa

Roma, 29 ago – Nel saggio del 1932 Il concetto di «politico» Carl Schmitt, avendo stabilito che la distinzione a cui ricondurre le azioni politicamente caratterizzate è quella tra «amico» (Freund) e «nemico» (Feind), applicava tale categoria interpretativa a tutte le tipologie di conflitto, includendovi quella tra fedeli di diverse religioni. Ogni diatriba confessionale (oltre che, per inciso, morale, economica o etnica), precisava il giurista di Plettenberg, si tramuta infatti in contrasto politico – quindi in guerra potenziale o dichiarata – se è capace, per la sua intensità, di «raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici». Ne consegue, secondo Schmitt, che se una comunità religiosa muove guerra ad altre comunità religiose, allora essa è «oltre a una comunità religiosa, un’unità politica». C’è di più. È allo Stato, nella sua essenziale politicità, che compete il jus belli, la possibilità cioè di determinare caso per caso il nemico e di combatterlo. Onde per cui, mutuando da Giorgio Falco la definizione della christianitas (medievale) come «Santa romana repubblica» – entità religiosa, dunque, e al tempo stesso politica, imperniata sulla Chiesa di Roma – si può concordare con Schmitt sul reale significato del passo evangelico che prescrive ai cristiani di amare il proprio nemico. Sia nella versione latina sia in quella greca, infatti, il precetto non si riferisce al nemico politico o pubblico (hostis, πολέμιος), bensì a quello privato (inimicus, ἐχθρὸς). Al punto che, si legge ancora in Schmitt, «nella lotta millenaria tra la cristianità e l’islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l’Europa, invece che difenderla, per amore verso i saraceni o i turchi».

Da perseguitati a persecutori

È d’altronde risaputo che la Chiesa, perlomeno dal «compromesso costantiniano» in avanti – da quando cioè poté contare sulla collaborazione dell’apparato coercitivo delle autorità secolari –, adottò un approccio tutt’altro che dialogante, quanto piuttosto «muscolare» nei confronti dei seguaci di altre religioni, oltre che della dissidenza germogliata nel proprio seno. Limitando l’analisi al periodo compreso tra il riconoscimento del cristianesimo come religio licita e la fine del secolo XIV – ed escludendo il caso degli ebrei della diaspora (i quali, seppur discriminati e vittime di frequenti pogrom, per la Chiesa dovevano sopravvivere a testimonianza del destino ingrato che la provvidenza riservava al «popolo deicida») – è infatti possibile cogliere, da parte ecclesiastica, la distinzione tra due principali tipi di hostis a cui era lecito, in quanto tali, muovere guerra: il nemico pubblico «esterno», gli infedeli musulmani (bollati come «gente immonda» da papa Urbano II a Clermont); e il nemico pubblico «interno», gli eretici (raffigurati da Innocenzo III, in un decreto pontificale, alla stregua di serpenti dalle code intrecciate). Orbene, se le vicende delle crociate in Terrasanta e della lotta alle eresie sono piuttosto note, è però meno conosciuta la guerra di conversione che la Chiesa mosse al paganesimo europeo quando si mutò – per citare un libro di Franco Cardini – da perseguitata in persecutrice. Una guerra, quest’ultima, su cui ci si intende ora soffermare, con due precisazioni: la prima è che l’analisi di essa, in questa sede, sarà circoscritta al continente europeo e dal periodo tardo-antico allungherà lo sguardo fino all’ultimo scorcio del medioevo; la seconda è che, nella suddetta disamina, il termine paganesimo – di etimo incerto, ma di sicura origine cristiana, impiegato dagli apologeti in funzione polemica («adoratori di falsi dèi di pietra e di legno» definiva i pagani sant’Agostino) – sarà messo in relazione a tutti i culti politeistici europei che la Chiesa si impegnò a sradicare nel periodo considerato, non solo a quelli di matrice greco-romana (peraltro ancora vitali al crepuscolo dell’antichità classica).

Una Chiesa, tre strategie

Le tappe di quello sradicamento furono molteplici e corrisposero all’espansione del cristianesimo in Europa sino a far coincidere, alla fine del Trecento, le frontiere della christianitas con quelle del Vecchio Continente. Su tale processo, peraltro, è a disposizione una discreta bibliografia, della quale è opportuno citare almeno tre titoli: un volume di Richard Fletcher, La conversione dell’Europa. Dal paganesimo al cristianesimo 371-1386 d.C. (trad. it. Corbaccio, Milano 2000); il già menzionato lavoro di Cardini, Cristiani perseguitati e persecutori (Salerno Editrice, Roma 2011); e il saggio Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico (trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2018), di Catherine Nixey. Da tali lavori, nel complesso, emergono nitidamente i contorni di un bellum in cui la Chiesa – per tornare a Schmitt – agì come entità non solo religiosa, ma anche politica: in grado dunque, come nelle guerre contro islamici ed eretici, di inquadrare la figura dell’hostis – la paganitas in tutte le sue variegate espressioni – e di selezionare i mezzi più adatti a sconfiggerlo. Strumenti, questi ultimi, che furono propri ma anche altrui, nel senso che il cristianesimo, per combattere i culti pagani e perseguitarne gli adepti, ricorse a tre strategie che si mossero perlopiù in parallelo, anche se in alcuni casi si intersecarono: l’impiego del dispositivo giuridico e militare dell’auctoritas imperiale o regia cristianizzata; le competenze guerresche del ceto dei cavalieri messe al servizio della Chiesa (il modello delle due spade teorizzato da papa Bonifacio VIII); l’azione diretta degli ecclesiastici.

«La spada è il nostro papa»        

Nella prima strategia rientra senz’altro la fitta legislazione imperiale (romana e romano-germanica) – imposta, se necessario, manu militari – contro le pratiche di culto politeistiche: dagli editti teodosiani della fine del IV secolo (Cardini cita, tra le altre, una norma del 392 che interdiceva «sotto pena di morte qualsiasi espressione di paganesimo») al Capitolare carolingio di Paderborn del tardo VIII secolo che, scrive Fletcher, registrava «le misure prese [dai franchi] per la cristianizzazione della Sassonia» (si trattò di quella evangelizzazione forzata del popolo sassone, accompagnata dalla devastazione di alcuni santuari, che in tempi recenti indusse Julius Evola a criticare l’ideologo nazionalsocialista Rosenberg, a cui il filosofo italiano rimproverava di vedere «la tradizione nordica continuarsi non in Carlo Magno […], ma nei sassoni pagani distrutti da questo imperatore»). Alla seconda strategia, invece, appartengono le «crociate» promosse dai pontefici romani e dagli arcivescovi tedeschi nell’area compresa tra la Polonia e il Baltico che portarono, tra la prima metà del XII secolo e l’inizio del XIV, alla cristianizzazione dei vendi e dei livoniani, grazie al decisivo contributo dei cavalieri Schwertbrüder e dell’ordine teutonico (a cui Fletcher attribuisce il conio del bellicoso motto: «La spada è il nostro papa»).

Santi distruttori di templi

La terza strategia infine, che vide coinvolti in prima persona i chierici – tra cui alcune venerate figure della tradizione cattolica –, assunse contorni rilevanti nell’Europa latina tra la fine dell’evo antico e gli albori dell’età di mezzo. «Alcuni dei più famosi santi dell’Occidente», sottolinea la Nixey, «iniziarono la loro carriera […] demolendo santuari [pagani]», il più delle volte con il tacito assenso del potere secolare e l’ausilio di gruppi di monaci organizzati. Due esempi tra tutti: san Martino di Tours – vir Deo plenus secondo l’agiografo Sulpicio – evangelizzò le campagne della Gallia nel IV secolo incitando i propri sodali a dare fuoco ai templi degli «idolatri»; mentre san Benedetto da Norcia – così riferisce Cardini – quando nel 530 volle edificare un cenobio a Montecassino, dovette prima demolire, con il supporto dei suoi confratelli, un antico e ancora frequentato fanum di Apollo.

Conversioni spontanee e battesimi politici

A differenza del cristianesimo – uscito sostanzialmente indenne, nonostante il fenomeno dei lapsi, dai colpi infertigli dalle autorità romane fino al primo decennio del IV secolo – il paganesimo europeo non sopravvisse all’ondata persecutoria che si abbatté su di esso pur rivelando, nella sua lenta agonia, insospettate capacità di resistenza (in Spagna, osserva Cardini, ancora nel VI e nel VII secolo i vescovi esigevano dai funzionari civili l’applicazione di pene draconiane per «chiunque fosse sorpreso a offrire sacrifici ai daemones, vale a dire alle divinità pagane»). Fu però una morte, quella degli antichi culti per mano cristiana, che sarebbe scorretto attribuire al solo impiego della forza. Nel buon esito dell’evangelizzazione dell’Europa, in effetti, giocarono anche altri moventi. Parecchie conversioni furono spontanee, frutto dell’instancabile opera missionaria del clero. Altre invece, in epoca medievale, dipesero da considerazioni di realpolitik da parte dei sovrani o da ragioni opportunistiche da parte dei loro sudditi. Fu quest’ultimo il caso delle aristocrazie e delle plebi pagane che seguirono i rispettivi monarchi nella transizione al cristianesimo: così accadde in Gallia, nel 496, con il battesimo del re franco Clodoveo; e così avvenne nove secoli più tardi in Lituania – all’epoca l’ultimo baluardo pagano d’Europa – quando il granduca Jogalia, nel 1385, abbracciò la fede in Gesù per unire la propria corona a quella polacca, sposando la principessa cattolica Jadwinga.

Corrado Soldato  

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