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“Finché i ciottoli divengano rocce”: il Giappone fa l’impresa con l’inno negato per 50 anni

by Eugenio Palazzini
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giappone inno

Roma, 2 dic – E’ un’impresa che fa la storia del calcio. Data per spacciata nel girone di ferro dei Mondiali in Qatar, la nazionale di calcio del Giappone ha stupito il mondo passando come prima agli ottavi di finale. I Samurai Blue, dopo la clamorosa vittoria in rimonta contro la blasonata Germania, ieri sera si sono sbarazzati pure della Spagna di Luis Enrique. Sempre in rimonta, sempre 2-1, sempre lottando su ogni pallone fino al fischio finale. E così per una generazione cresciuta con Holly e Benji la finzione, d’un tratto, è diventata realtà. Inevitabile per i non più giovanissimi – come chi scrive – nati negli anni Ottanta, ripensare alla finale dell’International Junior Youth Tournament. Perché anche lì, in quello splendido quanto surreale cartone, i giapponesi vinsero in rimonta contro la nazionale tedesca. In quel caso era una finale mondiale, stavolta no, ma i nipponici hanno comunque eliminato la Germania. Festa grande per calciatori e tifosi di una nazione che per 54 anni, fino al 1999, non ha avuto un inno nazionale ufficiale. Un inno che ieri sera chi è sceso in campo e chi si è alzato in piedi dalla panchina ha cantato quasi con le lacrime agli occhi. Tutti, e forse più di tutti l’uomo che ha costruito la corazzata che ha stupito il mondo: Hajime Moriyasu, l’allenatore dell’impresa. Hajime, in giapponese “inizio”, “principio di tutto”, nascita e rinascita del Sole. Che sorge sempre a Levante.

“Il regno dell’Imperatore”. L’inno nazionale del Giappone

E’ forse l’inno nazionale più breve in assoluto. Sublime brevitas nipponica, come in un raffinato pas de touche: “Che il Vostro regno possa durare mille, ottomila generazioni, finché i ciottoli divengano rocce coperte di muschio”. Ripetere due volte. Stop. Sono le parole del Kimi ga yo (Il regno dell’imperatore), appena 32 caratteri riscoperti ufficialmente 23 anni fa grazie a un’apposita legge. Fu in quell’occasione che l’allora primo ministro nipponico, Keizo Obuchi, lo presentò così, rendendolo obbligatorio in tutte le scuole del Paese: “Kimi indica l’imperatore, il quale è il simbolo dell’unità del popolo, la cui posizione deriva dal consenso basato sulla volontà dei cittadini nipponici, che detengono il potere sovrano”.

Il testo riprende, modificandola leggermente, una poesia di un autore anonimo inclusa nella raccolta Kokinshū, del periodo Heian (794-1185). Nel 1999 il ministero dell’Educazione stabilì che “nelle cerimonie inaugurali e di diploma, le scuole devono alzare la bandiera del Giappone e dare istruzione agli studenti al fine di intonare l’inno nazionale ‘Kimigayo’, data l’importanza della bandiera e dell’inno stessi”.

Nel 1945, con l’occupazione americana, l’inno era stato accantonato perché bollato come “aggressivo, imperialista e militarista”. Mai scomparso davvero, sempre amato, sempre sussurrato in Giappone con ineffabile raffinatezza. Rileggete le parole dell’inno e provate a scorgervi “aggressività”. Ma tant’è. Il Sol Levante è tornato a cantare Il regno dell’imperatore. E quei ciottoli, ieri sera, erano rocce.

Eugenio Palazzini

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