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Fine dell’utopia verde: l’Europa riscopre la realtà

by Sergio Filacchioni
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Europa

Roma, 28 ott – Al vertice del 24 ottobre, i leader europei hanno fatto qualcosa che fino a poco tempo fa sembrava impossibile: hanno messo in discussione, almeno in parte, i dogmi del Green Deal. Non si tratta di un’inversione totale, ma di una frenata significativa. Gli obiettivi di riduzione delle emissioni restano formalmente intatti — –90% entro il 2040 e zero netto nel 2050 – ma verranno introdotte nuove forme di flessibilità, soprattutto per l’industria automobilistica, uno dei settori più colpiti dalle politiche verdi. Il voto definitivo è stato rinviato al 4 novembre, ma il segnale politico è chiaro: l’Europa comincia a fare i conti con la realtà.

L’Europa e i costi reali del Green Deal

Per anni, la transizione ecologica è stata raccontata come una crociata morale più che come una strategia economica. I governi dovevano adeguarsi ai parametri fissati a Bruxelles, spesso senza calcolare i costi sociali e produttivi. Il risultato è stato un aumento dei prezzi, una fuga industriale verso l’Asia e una progressiva perdita di competitività. Tutto nel nome di una “salvezza del pianeta” brandita come dogma e imposta come religione civile. Oggi, però, la musica cambia. Le parole di Donald Tusk, che ha parlato di “punto di svolta” e di “disinnesco di una minaccia per famiglie e automobilisti polacchi”, riassumono bene la tensione che attraversa l’Europa: non è più sostenibile sacrificare l’economia reale sull’altare dell’ambientalismo ideologico. Anche Friedrich Merz, il cancelliere tedesco, ha ricordato che “nessuno mette in discussione la protezione del clima, ma bisogna coniugarla con la competitività industriale”. Tradotto: se l’industria europea crolla, il Green Deal diventa solo un lusso per élite metropolitane.

Una nuova flessibilità

In termini concreti, la nuova flessibilità approvata a Bruxelles significa soprattutto un ammorbidimento dei vincoli più rigidi del Green Deal, in particolare per il settore automobilistico e industriale. L’obbligo di riduzione del 100% delle emissioni per le auto nuove, previsto per il 2035, non verrà abolito ma reso più elastico: gli Stati potranno mantenere una quota limitata di veicoli a combustione, purché alimentati con carburanti sintetici o biocarburanti avanzati. Allo stesso modo, per i comparti agricolo e manifatturiero viene introdotta una clausola di adattamento nazionale, che consente di calibrare i tagli alle emissioni in base alla struttura produttiva di ciascun Paese, evitando di imporre le stesse percentuali a economie molto diverse tra loro. Anche sul fronte finanziario si profila un approccio più realistico, con la possibilità di rivedere il sistema ETS per evitare che il costo della transizione ricada interamente su famiglie e imprese. Sicuramente non è una rivoluzione, ma rappresenta un cambio di paradigma sostanziale: l’Unione ammette che la transizione ecologica non può essere una punizione, bensì un processo sostenibile anche per chi produce, lavora e vive nell’economia reale. A confermare la portata di questo cambiamento sono arrivate, quasi in simultanea, le parole di Ursula von der Leyen e del ministro italiano delle Imprese Adolfo Urso. La presidente della Commissione europea ha annunciato l’intenzione di rivedere entro la fine dell’anno il regolamento sulla CO₂, aprendo di fatto alla revisione delle soglie imposte per auto e veicoli commerciali. Un messaggio chiaro: dopo anni di ortodossia climatica, anche Bruxelles riconosce la necessità di ribilanciare l’ambizione ecologica con la sostenibilità economica.

L’impatto per l’Italia

Per l’Italia, questo cambio di passo rappresenta una finestra di respiro economico e strategico. Il nostro Paese, con un apparato produttivo fondato sulla manifattura, l’automotive e l’agroalimentare, è tra quelli che più hanno sofferto l’impianto “punitivo” del Green Deal. Le regole europee sul taglio delle emissioni, applicate in modo uniforme, avevano colpito soprattutto le piccole e medie imprese, incapaci di sostenere i costi di una riconversione forzata verso l’elettrico o di adeguarsi alle normative ambientali pensate su misura per le grandi multinazionali del Nord Europa. La nuova impostazione consente a Roma di difendere i propri settori chiave, a partire dall’automotive e dall’agricoltura, introducendo margini di flessibilità che permettono di valorizzare tecnologie intermedie come i biocarburanti e i carburanti sintetici, su cui l’Italia è già all’avanguardia. Allo stesso tempo, la revisione del sistema ETS e il rallentamento dei target sul 2035 possono alleggerire la pressione energetica e fiscale su famiglie e imprese, aprendo spazi per una politica industriale nazionale più autonoma. In prospettiva, questo nuovo equilibrio può trasformarsi in un’occasione per ridefinire la posizione italiana all’interno dell’Unione, smettendo di subire la transizione ecologica e iniziando a guidarla secondo un criterio di realismo produttivo e sovranità energetica. Se gestito con intelligenza politica, il Green Deal “correttivo” potrebbe diventare per l’Italia ciò che il Recovery Fund non è mai stato: uno strumento di potenza e non di dipendenza.

L’indignazione della sinistra: primi a “piangere”

Non sorprende che i primi a sollevare il clamore per questa correzione di rotta siano stati proprio i movimenti e i giornali della sinistra ecologista, da Collettiva a il manifesto, che parlano di un “addio al Green Deal” e di una “resa dell’Europa alla logica del profitto e del riarmo”. Un ulteriore attacco arriva da sette ONG europee — tra cui WWF Italia, Greenpeace Italia e Legambiente — che in una lettera aperta al vertice del 23-24 ottobre hanno denunciato la cosiddetta «deriva» dei 27 verso un alleggerimento del Green Deal europeo. Secondo le ONG, la richiesta di rivisitare le norme sulle emissioni per auto e van rappresenta “un atto inedito… mirato a smantellare uno dei principali pilastri della politica industriale e climatica dell’Unione”. La narrativa è sempre la stessa: l’Unione non investe più abbastanza “per il clima”, ma spende per la difesa e per la competitività industriale. In altre parole, l’Europa smetterebbe di essere la “guida morale del pianeta” per tornare a fare politica economica e militare. Ma proprio questa indignazione rivela la natura del problema. Per anni, il Green Deal è stato il totem ideologico della sinistra europea, l’ultimo strumento rimasto per legittimare una visione morale e post-politica del continente: un’Europa che non decide più, ma educa; che non produce, ma predica. Vedere quel totem incrinarsi suscita quindi reazioni scomposte, perché significa ammettere che la transizione verde, così com’era concepita, non era sostenibile né sul piano sociale né su quello strategico. Dietro le lacrime per la “fine dell’utopia verde” si nasconde in realtà la paura di perdere un monopolio culturale: quello di un ambientalismo trasformato in strumento di controllo morale e finanziario, buono per colpire i produttori, i lavoratori e le imprese nazionali, ma mai i grandi circuiti delle rendite. Se oggi l’Europa parla di competitività e riarmo è un bene, perché sta finalmente riscoprendo la politica come realtà, dopo anni di ingegneria ideologica travestita da salvezza del pianeta.

Un attacco alle rendite ambientaliste

Negli ultimi mesi, infatti, erano emerse accuse sempre più circostanziate sul modo in cui il Green Deal è stato gestito e finanziato negli anni passati. Un’inchiesta citata anche da De Telegraaf e ripresa dal Primato Nazionale ha rivelato l’esistenza di fondi europei multimiliardari destinati non tanto a progetti ambientali concreti, quanto al finanziamento di organizzazioni e lobby “verdi” incaricate di influenzare governi e opinione pubblica in favore dell’agenda climaticista. Sotto la spinta dell’ex commissario Frans Timmermans, milioni di euro sarebbero confluiti verso una rete di gruppi ambientalisti che, di fatto, hanno agito come intermediari ideologici della Commissione, trasformando la transizione ecologica in un sistema di potere più che in una strategia sostenibile. In questo contesto, la “flessibilità” discussa a Bruxelles non è solo un aggiustamento tecnico, ma l’ammissione implicita che il Green Deal, così com’era concepito, aveva perso ogni legittimità sociale: costruito su un impianto ideologico e finanziario opaco, ha finito per penalizzare i settori produttivi europei mentre alimentava il circuito delle rendite ambientaliste.

Margini di autonomia e pragmatismo

Questa correzione di rotta non è solo una questione economica, ma politica. Significa riconoscere che non tutto è deciso dai “poteri forti” o dalle burocrazie sovranazionali, e che anche dentro le istituzioni europee si può ancora affermare un margine di autonomia e pragmatismo Non è il trionfo del populismo, ma la prova che l’Unione non è un monolite, e che al suo interno convivono interessi, pressioni, ma anche improvvisi momenti di lucidità. Per la prima volta dopo anni, l’Europa sembra accorgersi che l’ecologia reale non coincide con l’ecologismo ideologico. La prima parte da un principio semplice: la tutela dell’ambiente è un fine, non un’ideologia. Richiede innovazione tecnologica, gradualità, politiche sociali e un’idea di sovranità energetica che eviti nuove dipendenze – questa volta dal litio cinese o dalle turbine eoliche prodotte a Pechino. La seconda, invece, ha trasformato la transizione in un progetto di ingegneria morale, dove chi dissente viene bollato come “negazionista climatico” e chi chiede realismo viene accusato di sabotare il futuro. Il vertice del 24 ottobre segna quindi una prima crepa visibile nell’utopia verde. Non sarà la fine del Green Deal, ma forse l’inizio di un Green Reality: un modello che tenta di riconciliare ecologia e sviluppo, ambiente e lavoro, sostenibilità e industria.

Dal moralismo alla politica

Se l’Europa avrà il coraggio di abbandonare il moralismo e scoprire la grande politica, questo potrà essere ricordato come il momento in cui ha smesso di inseguire un’utopia e ha cominciato a costruire una strategia. Perché il vero fallimento del Green Deal non è aver mirato in alto, ma aver dimenticato l’uomo reale – il lavoratore, l’imprenditore, il cittadino – in nome di una formula astratta. E se oggi alcuni governi europei riescono a far valere il principio di realtà, non è un tradimento del sogno europeo: è la condizione minima per renderlo concreto.

Sergio Filacchioni

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