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Haftar–Lukashenko, l’alleanza che trasforma i migranti in arma

by Sergio Filacchioni
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Haftar

Roma, 19 ago – Quattro anni dopo la crisi del 2021, l’Europa si trova nuovamente di fronte al rischio di una pressione migratoria deliberatamente costruita ai suoi confini orientali. Questa volta lo schema appare ancora più complesso: non solo il dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko, ma anche Vladimir Putin e il generale libico Khalifa Haftar sembrano coinvolti in un’operazione di destabilizzazione che combina rotte africane e logistica aerea.

Dalla Cirenaica a Minsk, Haftar regala migranti alla Bielorussia

Secondo un’inchiesta del Telegraph e conferme da fonti polacche, negli ultimi mesi è aumentato in maniera anomala il numero di voli Bengasi–Minsk operati da Belavia Airlines: due a maggio, cinque a giugno, quattro a luglio. Bruxelles ha individuato in questo traffico aereo un potenziale segnale di coordinamento per alimentare flussi irregolari destinati a colpire le frontiere orientali dell’Unione. Il paragone con quanto accadde quattro anni fa è inevitabile. Allora, migliaia di migranti provenienti dal Medio Oriente e dall’Asia centrale vennero trasferiti in Bielorussia per poi essere spinti verso Polonia, Lituania e Lettonia. Reporter come quelli di BIRN documentarono la situazione drammatica di famiglie e giovani uomini bloccati nei boschi, privati di acqua, telefoni e spesso picchiati dalla polizia bielorussa. La risposta degli Stati baltici fu drastica: barriere di filo spinato, pattugliamenti armati e la legalizzazione dei pushback, cioè respingimenti immediati anche senza esame delle domande d’asilo. Una scelta contestata dalle Ong, ma ritenuta indispensabile da Varsavia e dagli altri paesi interessati. Ne risultò un quadro di limbo umanitario, con gruppi di migranti spinti avanti e indietro, e un’Europa divisa tra vincoli umanitari e necessità di sicurezza.

Haftar tra Washington e Mosca

Oggi la dinamica si arricchisce di un nuovo attore: la Libia orientale di Haftar. Dopo anni di impegno militare in Siria, la Russia ha trasferito parte delle proprie risorse in Nord Africa, consolidando la propria influenza sul generale cirenaico. Le recenti parate delle sue milizie hanno mostrato mezzi e sistemi d’arma di fabbricazione russa, conferma di un legame sempre più stretto. Khalifa Haftar, oltre a controllare una vasta area del Paese, dispone di una rete consolidata di trafficanti di uomini, che da anni alimentano la rotta del Mediterraneo centrale. Il personaggio, del resto, è più complesso di quanto appaia: ex ufficiale di Gheddafi, prigioniero in Ciad nel 1987, venne reclutato dalla Cia per organizzare una milizia anti-regime e nel 1990 trovò rifugio negli Stati Uniti, dove ottenne la cittadinanza e visse per vent’anni in Virginia. Tornò in patria nel 2011, al seguito dell’insurrezione contro Gheddafi. Da allora si muove in equilibrio fra sponsor internazionali contrapposti – da Parigi a Mosca, dagli Emirati a Washington – risultando una pedina preziosa ma ingombrante nello scacchiere libico. La possibilità che tale infrastruttura venga integrata in una strategia coordinata con Mosca e Minsk rappresenta un potenziale salto di scala nell’uso della migrazione come arma geopolitica. Secondo Frontex, nei primi sette mesi del 2025 sono stati registrati oltre 5.400 attraversamenti irregolari alle frontiere orientali dell’Ue. Un numero contenuto rispetto al picco del 2021, ma che potrebbe crescere in caso di consolidamento della triangolazione Russia–Libia–Bielorussia. Il commissario europeo alla migrazione, Magnus Brunner, ha espresso forte preoccupazione: «La Russia sta già utilizzando i migranti come strumento di pressione e temiamo che con la Libia intenda replicare lo schema». Anche l’opposizione bielorussa in esilio denuncia l’uso sistematico dei migranti da parte del regime di Lukashenko per ricattare Bruxelles.

Il modello europeo deve rinnovarsi

L’episodio mette nuovamente in luce la vulnerabilità dell’Unione europea di fronte a forme di pressione non convenzionali. Già nel 2021 la crisi aveva mostrato come la gestione dei confini potesse trasformarsi in una leva politica per potenze ostili. Oggi, con l’aggiunta della Libia di Haftar al mosaico, il rischio è che la strumentalizzazione della migrazione diventi un’arma ancora più efficace per condizionare le scelte europee in materia di sicurezza. Non una novità assoluta, dopotutto: la Turchia di Erdoğan è stata apripista nel 2015, trasformando i migranti in arma negoziale per strappare miliardi di euro e concessioni politiche all’Unione Europea. Nel 2020 arrivò persino a spalancare le frontiere verso la Grecia, alimentando scontri a Evros e nell’Egeo. Ma quando ci sono debolezze strutturali, è evidente che qualcuno le sfrutti: in Europa esistono forze politiche e movimenti che, opponendosi ai respingimenti e ricorrendo alle corti, finiscono per agire come quinte colonne indirette. Il recente stop della Corte di Giustizia UE al “modello Albania” ne è un esempio: ostacolando accordi e misure di contenimento, si rende più facile il gioco di chi usa i flussi migratori come arma di pressione. Perché la lezione del 2021 è chiara: quando i flussi migratori diventano un mezzo di guerra ibrida, non basta l’approccio emergenziale, serve una visione capace di difendere i confini e la stabilità interna.

Sergio Filacchioni

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