L’anniversario della Liberazione rappresenta una data spartiacque della recente storia d’Italia.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, infatti, la storiografia italiana si è posta ciclicamente tre principali interrogativi alla base della nostra vicenda repubblicana, e cioè:
1) quella del 1943-45 è stata una guerra civile o una Resistenza?
2) collegato al primo, il 25 aprile ricordiamo soltanto la vittoria sul nazifascismo?
3) il referendum del 2 giugno 1946 ha dato alla Repubblica italiana una legittimità indiscussa?
Se per il primo quesito non dovrebbero esserci più dubbi per cui sì, tra il ’43 e il ’45 c’è stata anche una guerra civile fra italiani – mentre per il terzo nessuno oggi metterebbe più in dubbio la forma attuale del nostro Stato – la risposta alla seconda domanda non appare così scontata.
Non si tratta qui di fare l’ennesima polemica sulla dicotomia fascismo/antifascismo o proporre una qualche nuova tesi revisionista, ma di capire quale fu effettivamente lo status politico dell’Italia in quel di aprile di ottant’anni fa.
Intanto i fatti: il 10 febbraio 1947 Alcide De Gasperi firmò a Parigi il Trattato di Pace che sancì le condizioni riservate al nostro Paese dopo la guerra. In realtà il Primo ministro italiano fu costretto a subire un diktat pesante che infranse le nostre illusioni di ricevere un trattamento di favore per il contributo dato alla causa alleata (attraverso la cosiddetta “cobelligeranza”).
L’Italia, invece, venne considerata a tutti gli effetti una nazione nemica sconfitta, che doveva pagare il suo scotto; eppure un confronto con l’ex alleato tedesco mostra delle differenze sostanziali: in primis il nostro Paese non subì l’occupazione di tutti gli eserciti alleati come accadde per la Germania, spartita fra Americani, Inglesi, Francesi e Sovietici (con tutte le sue tragiche conseguenze); poi, nonostante la dolorosa amputazione del confine orientale, si può dire che l’Italia conservò la sua integrità territoriale e non conobbe nessun muro atto a dividerla per anni; infine, la Penisola riacquistò in breve tempo un ruolo internazionale decisivo, se pur come “frontiera” tra il blocco occidentale e quello comunista.
Insomma, l’Italia era salva, ma ciò fu possibile solo grazie alla lotta vittoriosa contro il nemico fascista e nazista oppure grazie anche ad altri fattori?
Gli storici Ernesto Galli della Loggia ed Elena Aga Rossi hanno parlato rispettivamente di “morte della Patria” e di “nazione allo sbando”, volendo mettere l’accento sulla presunta liquefazione dello Stato italiano all’indomani dell’otto settembre.
Nonostante la tragedia dell’armistizio, però, si potrebbe azzardare a dire che quello stesso Stato italiano, pur con tutti i limiti del caso, riuscì a reggere, anzi addirittura…si sdoppiò: la monarchia salva dei Savoia a sud e la Repubblica di Mussolini a nord rappresentarono dei soggetti statuali in grado di applicare un governo, se pur precario, del territorio ed emanare leggi e provvedimenti politici.
Inoltre bisogna aggiungere che i ricostituiti partiti italiani, nella formula del CLN, riuscirono a traghettare il Paese dalla monarchia alla Repubblica, dare ad esso una Costituzione e un governo in appena tre anni dalla fine della guerra!
Ma tutto questo fu possibile perché la società italiana resse ad una guerra persa seguita da una guerra civile – mentre eserciti stranieri la invadevano tanto da sud quanto da nord – e ci riuscì grazie ad una pubblica amministrazione, sia statale sia locale, che seppe garantire la continuità legale alla Nazione, così come evidenziato da Aldo Ricci nel suo ultimo libro Elogio della Storia. L’Italia nella guerra civile europea 1914-1953 (Oaks editrice): «un’amministrazione che opera, al Sud come al Nord, con le stesse leggi, regolamenti e uomini formati alla stessa scuola. Sono questi uomini che assicurano il razionamento, il controllo della produzione, un minimo di assistenza, un qualche ordine pubblico, il pagamento degli stipendi».
Ancora secondo l’autore, nei venti mesi dal settembre 1943 all’aprile 1945, l’apporto di queste persone rimaste sconosciute e lontane dalla ribalta della Storia «costituì un’ancora cui aggrapparsi, prima separatamente, poi di nuovo unitariamente, nel Paese allo sbando. Un tessuto connettivo minimo che consentì anche di procedere sulla strada del ritorno alla normalità».
Chi più di tutti è riuscito a descrivere bene la “resistenza” della società civile italiana in quegli anni terribili, è stato lo storico e giornalista Franco Bandini, ricordando il coraggio quasi tragico degli Italiani di allora di affrontare la catastrofe di una guerra terminata sul nostro suolo ufficialmente il 2 maggio 1945: «[…] nella sua stragrande maggioranza, l’insieme della popolazione italiana combatté l’ultima guerra senza mai porsi davvero il quesito della sua giustezza o meno. Lo fece con disciplina, con coraggio e molte volte con grande valore, sia tra i soldati che tra i civili e naturalmente con una stanchezza crescente. Per tutti coloro che hanno a cuore non gli arzigogoli e gli errori della politica, ma il grado di salute vitale di un popolo, va detto che la prova fornita dal nostro può essere iscritta a giusto titolo nel patrimonio storico della nazione: più e meglio di quanto non possano fare altre. Dimenticarsene è ingiusto, sciocco e anche pericoloso».
Gianluca Rizzi