Roma, 15 ott – Lo scorso 7 ottobre, presso l’associazione «Gorgone» di Legnano, Corrado Soldato ha intervistato Carlomanno Adinolfi, presentando il suo ultimo libro: Roma o morte (Altaforte Edizioni). Si riportano, di seguito, i passaggi più significativi dell’intervista.
Ottobre, il mese della storia: intervista ad Adinolfi
Tu, Adinolfi, non sei un romanziere esordiente. Prima di Roma o morte hai scritto Il Sole dell’Impero e il racconto dannunziano L’occhio del Vate. Ricordo che una volta dicesti: «I saggi hanno rotto», intendendo per saggi, ovviamente, non gli uomini, ma i libri. Non a caso, per ricostruire antefatti e svolgimento della Marcia su Roma, hai optato per la narrativa. In cosa essa è preferibile alla saggistica nella ricostruzione di un periodo storico?
Ritengo che la narrativa abbia un potere di penetrazione nello spirito che il saggio non possiede. L’approccio del saggio è razionale. La narrativa invece, non solo ha notevole capacità di sintesi, ma parla soprattutto per immagini e simboli. Ti «entra dentro», colpisce quella sfera prerazionale e intuitiva che già per Platone era la forma di conoscenza più potente. Non si tratta solo di romanzo, o anche di poesia. Mussolini definì il cinema «l’arma più forte», perché aveva sullo spettatore un grande impatto, anche propagandistico. Porto spesso un esempio. Quando uscì il film 300, i tradizionalisti storsero il naso. Il film, poco o nulla filologico, era inadatto ai giovani, cui sarebbe stato meglio proporre Le virtù di Sparta di Plutarco. Ma 300, seppure storicamente poco accurato, ha un sicuro impatto simbolico ed emotivo, è efficace nel comunicare valori come eroismo e sacrificio a un adolescente. Il quale poi, se è adatto, può leggere Plutarco per cementare quelle impressioni, approfondirle sul piano razionale. Da qui l’importanza di relazionarsi al lettore non specialistico, e non solo a quello giovane, tramite la narrativa, ma anche il cinema, o il fumetto, fornendogli immagini e simboli prima che concetti. Ciò vale particolarmente per l’area identitaria, dove la produzione narrativa latita, mentre la folta saggistica è spesso autoreferenziale.
Ti rivolgo la classica domanda che si rivolge all’autore di un romanzo storico: quanta realtà e quanta finzione ci sono nel tuo racconto? Come è riuscito Adinolfi a bilanciare i due aspetti?
Nel libro si narrano molti fatti realmente accaduti. E ci sono i personaggi storici: Balbo, Perrone Compagni, Igliori, Carli, D’Annunzio, Salandra e Giolitti, per citarne alcuni. C’è Mussolini. I personaggi del racconto, alcune situazioni, invece, sono ovviamente fittizi, sebbene la fiction sia inserita in situazioni storiche documentate. Il che ha richiesto un impegnativo lavoro di ricerca: dalla lettura del Diario di uno squadrista toscano, dei diari di Balbo, dei resoconti su Fiume, alla consultazione dei giornali dell’epoca, inclusi quelli socialisti.
Adinolfi, la trama del romanzo può essere così sintetizzata: «Quattro storie che partono da punti distanti ma che finiscono per intrecciarsi in quel fatidico 28 ottobre 1922 che avrebbe portato all’avvento del Ventennio fascista». Vuoi presentare i protagonisti di queste storie parallele, che corrispondono ad alcune delle «anime» che confluirono nel «fascio di forze» creato da Mussolini?
Il primo dei quattro, in ordine di apparizione, è il ferrarese Leonardo, un «ragazzo del ‘99» che si è battuto in guerra sul Piave e a Vittorio Veneto. È un reduce animato dalla speranza in una nuova Italia, che si ritrova però alle prese con una nazione in crisi, politicamente ed economicamente a terra, minacciata dalla marea socialista. E che reagisce aderendo ai Fasci. Poi c’è Massimo, un socialista massimalista. È un sindacalista milanese, un rivoluzionario, che si scontra con l’immobilismo del Psi, diviso tra il massimalismo radicale, ma parolaio, di Serrati e il riformismo inconcludente di Turati. Il terzo è Bruno, un parlamentare liberale, già interventista. Egli è ormai consapevole dell’incapacità dei liberali di affrontare i tempi nuovi, segnati dall’impatto della guerra, dall’irruzione delle masse nella politica. Bruno è anche un espediente narrativo, per gettare l’occhio nelle istituzioni, nell’ambiente politico, per meglio capire che ruolo esso ebbe nella Marcia su Roma. Infine il fiorentino Arnolfo, un ex ardito incapace di riadattarsi all’esistenza civile. Costui ritrova, prima nella Fiume dannunziana e poi nello squadrismo, quella vita di combattente in cui si sentiva realizzato, ma anche un destino che dà un senso alla sua esistenza. È il personaggio che, a mio parere, preferirà la maggior parte dei lettori.
Al centro del romanzo c’è il fenomeno delle squadre d’azione, che ha sempre goduto di pessima fama. Dai capitoli in cui sono protagonisti Leonardo e Arnolfo, però, emerge un ritratto dello squadrismo che non collima con l’immagine a cui molti sono abituati. Fu davvero un’ondata di brutale e gratuita violenza inflitta ad avversari pacifici e inermi, o fu ben altro?
Penso che la più bella definizione degli squadristi sia questa: «i punk del primo Novecento». Giovani ribelli scanzonati, impetuosi e anticonformisti, a volte goliardici, spesso violenti. Ovviamente si deve contestualizzare. Si usciva da una guerra brutale, la più terribile della storia. Guerra di trincea, devastante anche sul piano psicologico, che aveva creato reduci ormai disabituati alla routine della vita borghese. Il clima di violenza ereditato dalla guerra fu quello in cui germinò lo squadrismo, ma ciò valeva per entrambe le parti. Gli operai e i braccianti inermi brutalizzati dagli squadristi? È storicamente inaccurato. Anzi, la violenza peggiore fu inizialmente esercitata dai socialisti, con casi documentati di aggressioni e torture a danno degli avversari. Per non dire delle leghe rosse, che vessavano chi, tra i contadini, non voleva piegarsi al ferreo sistema di controllo che esse volevano imporre. La violenza squadrista ovviamente ci fu, ma fu una violenza di reazione. E poi aveva un carattere più metodico, disciplinato, meno estemporaneo e gratuito, soprattutto dopo la riorganizzazione delle squadre da parte di Balbo. Il fascismo primigenio aveva comunque un livello di preparazione militare, frutto dell’esperienza in trincea, che i socialisti non possedevano. Il che rese inevitabile la vittoria del primo sui secondi. Va anche detto che, al di là della violenza in sé, l’«uomo nuovo» fascista, con i suoi tratti di cameratismo eroico, nacque, oltre che in trincea, anche nelle squadre d’azione.
Uno tra i protagonisti del romanzo mi ha particolarmente colpito: Massimo, il sindacalista socialista. Egli, espulso dal partito, va da Mussolini, alla vigilia della Marcia su Roma, e gli propone la confluenza del suo sindacato in quello fascista. L’episodio è una licenza narrativa, o corrisponde alla realtà dei fatti per come si verificarono nel mondo sindacale italiano? Come la vede Adinolfi su questo tema?
La vulgata sostiene che i fascisti costrinsero con la violenza le masse contadine e operaie a fuoriuscire dai sindacati rossi (o popolari) per aderire a quelli fascisti. Ma le cose non andarono così. Certo, molti lavoratori, registrando una svolta negli equilibri di forza tra fascismo e socialismo, cambiarono campo per opportunismo, più che per convinzione. Va però detto che molti iscritti ai sindacati socialisti, soprattutto nei «feudi rossi» di Emilia-Romagna e Toscana, lo erano perché costretti. Se non stavano con il sindacato rosso, infatti, erano inseriti in liste di proscrizione, subivano boicottaggi sul lavoro e nella vita civile. Da qui l’adesione a un fascismo che sapeva reagire, anche con la forza, a questi soprusi. Il sindacalismo fascista, poi, badava al sodo. Nel romanzo, per esempio, si vede Balbo imporre a prefetti e agrari la cessione della terra ai braccianti o l’impiego dei disoccupati nei lavori di bonifica. Questo faceva presa su gente che, se non aveva grandi motivazioni ideali, certo aveva fame di terra e lavoro. Quanto a molti sindacalisti rivoluzionari come Massimo (così descritto da un lettore: «un Mussolini arrivato al fascismo con qualche anno di ritardo»), delusi dall’inconcludenza socialista, dallo sciopero per lo sciopero, dall’attesa messianica di una rivoluzione che non arrivava mai, essi, alla fine, si rivolsero al fascismo. Anche il personaggio di Massimo poi, come quello di Bruno, è un espediente narrativo. Mi è stato utile per pormi nella prospettiva del socialismo di allora, condannato alla sconfitta dall’incapacità politica e strategica dei dirigenti del partito e del sindacato.
Parte della vicenda di Arnolfo, l’ex ardito che diventa squadrista, si svolge nella Fiume della Reggenza del Carnaro e del «Natale di Sangue». Tu hai dedicato un romanzo a D’Annunzio e conosci bene storia, idee e personalità del Vate. Cosa pensi del rapporto tra fascismo e dannunzianesimo? Quanto dovette il fascismo al fiumanesimo sui piani estetico, politico e di visione del mondo?
Premetto che l’alternativa tra D’Annunzio fascista e D’Annunzio antifascista, che qualcuno ha posto, non ha molto senso. D’Annunzio non era fascista, né a maggior ragione antifascista. Era D’Annunzio e basta. Detto questo, però, l’operazione di scollegare il fascismo da D’Annunzio, e da Fiume, è storicamente scorretta. Penso che, senza Fiume, non ci sarebbe stato il fascismo. A parte gli aspetti coreografico, rituale, estetico, che sono fondamentali, Fiume fu il primo esperimento di un mondo nuovo; il luogo in cui, per la prima volta, forze diverse – nazionalisti, futuristi, sindacalisti, ex arditi, ribelli di ogni tipo – confluirono per realizzare un’idea rivoluzionaria. Fu un esperimento che diede vita a qualcosa di originale. Non al fascismo vero e proprio, certo. Quello verrà dopo. Però è vero che il fascismo diede forma a Fiume. Mussolini, il figlio del fabbro, diede simbolicamente forma al metallo grezzo riversatosi nel calderone fiumano. L’uomo nuovo fascista, la nuova civiltà, l’estetica e la liturgia del fascismo nacquero effettivamente anche a Fiume.
Spesso si afferma che la Marcia su Roma non fu un vero colpo di stato. Che fu una sfilata innocua, l’epilogo di una combine tra Mussolini e il re. Dal romanzo, però, l’impressione che si ricava è diversa. Lo confermi?
La marcia su Roma non fu affatto una «pagliacciata», né il suo esito era predeterminato. Fu una vera operazione militare metodicamente pianificata e organizzata, con l’occupazione di punti strategici in varie parti d’Italia, prima della convergenza delle squadre nella capitale. Vi furono anche scontri violenti, con diverse vittime. Fino all’ultimo, poi, l’esito fu incerto. Si rischiarono lo stato d’assedio e la guerra civile. Fu, insomma, un vero colpo di stato, in cui ebbero un ruolo anche i militari, molti dei quali simpatizzavano con le istanze del fascismo. Nel romanzo riporto un colloquio, sembra realmente avvenuto, tra il re, il maresciallo Diaz e l’ammiraglio Thaon di Revel. Alla domanda di Vittorio Emanuele – «In caso di stato di assedio, l’esercito mi rimarrebbe fedele?» – Diaz avrebbe risposto: «Sua Maestà non ha motivo di dubitare della fedeltà dell’esercito. Ma, se fossi in Sua Maestà, oggi non la metterei alla prova».
Un’ultima domanda, per concludere. Nel romanzo, la Marcia su Roma è presentata come una rivoluzione, o meglio l’inizio di una rivoluzione. Il fascismo, secondo te, fu davvero rivoluzionario? Se sì, in quali forme?
Sì, il fascismo attuò una vera rivoluzione. Andò al governo e cambiò l’Italia, sotto tutti i punti di vista, a partire da quello istituzionale. Questa è la verità storica. Ma la rivoluzione fascista, senza la Marcia su Roma e il contributo dell’esperienza squadrista, non sarebbe nemmeno iniziata. Peraltro, il fascismo coinvolse nel suo progetto rivoluzionario anche forze che fasciste non erano. Calamitò su di sé nazionalisti, liberali, popolari, sindacalisti. Anime diverse che non cambiarono il fascismo, ma che furono cambiate da esso. Nessuna di queste forze, poi, snaturò il fascismo, che fu un’avanguardia rivoluzionaria a cui gli altri si accodarono. Il fascismo fu tante cose: autoritario, socializzatore, conciliatore (con la Chiesa), nazionalista eccetera. Molte, dunque, erano le verghe. Ma al centro, nucleo granitico, c’era l’ascia. Tolta l’ascia – l’asse attorno a cui tutto ruotava – quel fascio di verghe si sarebbe spezzato.
Corrado Soldato