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Russia e Turchia in Libia: il Sud è già fronte, nonostante le favole rassicuranti

by Sergio Filacchioni
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Russia e Turchia in Libia

Roma, 9 sett – “Tranquilli, la Russia non ci minaccia davvero.” È il frame che da qualche anno ormai rimbalza tra salotti televisivi, analisti distratti e partiti in cerca di capri espiatori elettorali. Una formula che anestetizza subito ogni dibattito relativo a riarmo, autonomia strategica e che ha un solo effetto realmente tangibile: renderci insensibili ai rapporti di forza che malgrado tutto cambiano sotto il nostro naso.

La Russia ci minaccia più da vicino di quanto si creda

Ma c’è un passaggio, in un recente intervento di Giorgia Meloni alla Camera, che ha rotto questo torpore più di molte conferenze sulla “autonomia strategica” europea: quando la premier ha indicato nell’Est e nel Sud della Libia “le principali teste di ponte della proiezione militare russa in Africa”, ha toccato il nervo scoperto della nostra sicurezza. E no, qui non ci si può distrarre con le solite sciocchezze che sull’Ucraina vengono dette di continuo. Qui infatti si parla di Mediterraneo, del nostro “cortile di casa”, di quello che molti dicono che dovrebbe essere l’unica “vera” preoccupazione italiana. L’Italia più di tutti conosce il prezzo dell’“im-percezione geopolitica”, quella difficoltà a riconoscere in tempo i mutamenti che incidono direttamente sui nostri interessi vitali. Nel 2015, mentre l’informazione nostrana rincorreva le bandiere nere tra Mosul e Raqqa, lo Stato islamico metteva radici a Sirte, Derna, Bengasi. A poche centinaia di chilometri dalle nostre coste si consumava un cambio di fase, e il nostro dibattito fingeva che non esistesse. Oggi rischiamo di ripetere lo stesso errore, limitando la Russia al fronte ucraino e ignorandone la geometria reale: Mosca c’è già, militarmente, in Libia; ha già agito sul terreno, ha già cucito relazioni con l’Est del Paese, ha già trasformato quel caos in una piattaforma di pressione sull’Europa.

Una minaccia convenzionale diretta dal Sud

La Libia è il caso di scuola della dottrina russa del caos controllato. Nella frattura aperta dalla caduta di Gheddafi, il Cremlino ha praticato una penetrazione graduale, ibrida, mimetica: appoggio a milizie e potentati locali, proiezione di forze irregolari riarticolate oggi nell’Africa Corps, costruzione di dipendenze attraverso reti di sicurezza, contrabbando, addestramento, intelligence. Non si tratta di “riempire un vuoto” per stabilizzare: è il contrario, è padroneggiare il vuoto per orientare a proprio vantaggio flussi, leve e minacce. Nel lessico rassicurante delle cancellerie europee, la Libia resta “stallo politico”. Nella realtà, è una scacchiera in cui la Russia ha già mosso pezzi decisivi. Il toponimo che rende plastico il salto di qualità è Sebha. Nel cuore del Fezzan, snodo delle rotte tra Mediterraneo e Sahel: una base che, con sistemi missilistici a medio raggio, porterebbe per la prima volta dopo la Guerra Fredda una minaccia convenzionale diretta dal Sud. È la stessa logica che in Siria ha trasformato Tartus in un perno di deterrenza e ricatto strategico. Ma qui il messaggio sarebbe più vicino e più rumoroso: non più l’Est come unico vettore di minaccia, bensì il Sud, con tempi di reazione ridotti e un cappio che stringe le linee energetiche, le dorsali migratorie, le infrastrutture critiche. Chi ripete che “la Russia non ci minaccia” dovrebbe spiegare perché un simile posizionamento nel cuore del Nord Africa sarebbe un dettaglio irrilevante.

La Libia tra Russia e Turchia

Non è soltanto Mosca a muoversi nel caos libico: c’è un altro attore che avanza in maniera ancora più assertiva e che merita la nostra massima attenzione, la Turchia. Mentre la Russia consolida basi e influenza attraverso l’Africa Corps e le milizie di Haftar, Ankara agisce con legittimazioni formali, accordi navali e la dottrina della “Patria Blu che estende la sua proiezione marittima dal Mar Nero al Mediterraneo centrale. In Libia la presenza turca non è soltanto militare: significa ridefinizione dei confini marittimi, controllo dei flussi energetici, penetrazione economica e politica nei territori di Tripoli. Quindi, ridurre la Libia a un capitolo del file “migrazioni” è un alibi che non regge più. Certo, i flussi sono leva ibrida e ricatto geostrategico, come abbiamo già visto occupandoci della “strana” triangolazione Haftar-Lukashenko-Putin. Ma la posta vera è la trasformazione della Libia in piattaforma offensiva: proiezione militare, influenza sugli snodi energetici, capacità di colpire la percezione del rischio nelle opinioni pubbliche europee. È qui che il discorso di Meloni ha colpito il bersaglio: il Sud non è retrovia, è fronte. E la nostra sicurezza non si misura solo in chilometri da Kyiv, ma in minuti di volo dal Fezzan. Una simile eventualità riporterebbe alla memoria la crisi di Cuba del 1962: allora gli Stati Uniti, guidati da Kennedy, alzarono il livello di allerta globale per impedire il dispiegamento di missili sovietici a poche centinaia di chilometri dalle loro coste. Oggi, di fronte all’ipotesi di una Sebha trasformata in piattaforma missilistica e a una Turchia che consolida la propria “Patria Blu” nel Mediterraneo, in Italia ancora non ce ne rendiamo pienamente conto.

La sicurezza nazionale si difende alzando lo sguardo

Per l’Italia, questa consapevolezza impone una correzione di rotta. Geografia, storia e interessi ci condannano – o ci abilitano – a un ruolo di primo piano. Non possiamo più permetterci la divisione del lavoro in cui Roma gestisce gli “effetti collaterali” (sbarchi, emergenze, toppa sulle reti criminali) mentre altri attori manovrano le cause strategiche. La sicurezza nazionale si difende alzando lo sguardo: rafforzando la postura di deterrenza e allerta sul Mediterraneo centrale; integrando la dimensione libica nelle priorità europee; colmando i vuoti con iniziative politiche, economiche e di sicurezza che non siano foglie di fico ma investimenti di presenza; sanzionando chi alimenta il radicamento di forze straniere ostili; ricostruendo canali seri con gli attori africani disposti a cooperare su basi di realismo, non di retorica umanitaria a giorni alterni. C’è, infine, la dimensione psicologica. Le minacce non funzionano solo quando si materializzano, ma quando riescono a orientare scelte, calendari, budget, campagne elettorali. Una Libia come pedana missilistica è la sintesi perfetta del nuovo ricatto strategico: può non sparare mai, ma basta la sua ombra per dettare l’agenda. È qui che l’“im-percezione” diventa complicità, perché preferisce non vedere per non dover scegliere. È qui che l’Europa si misura per quello che è: una costruzione politica che o decide di avere confini e volontà, oppure si rassegna a subire quelli degli altri.

Non solo gestire gli amici, ma nominare i nemici

Il punto, allora, non è se la Russia “ci minacci davvero” secondo le categorie rassicuranti del nostro dibattito politico (e culturale) interno. Il punto è che Mosca sta già costruendo, in Libia, gli strumenti per condizionare la nostra libertà di manovra. Continuare a negarlo non ci renderà più sicuri; ci renderà soltanto più prevedibili, più vulnerabili e, soprattutto, più irrilevanti. L’alternativa è svegliarsi adesso: riconoscere la centralità del fronte Sud, assumere la guida di un’iniziativa europea che non si limiti a gestire conseguenze ma aggredisca le cause, rimettere al centro l’interesse nazionale come bussola, non come slogan. È il minimo sindacale per un Paese che vuole restare padrone del proprio destino nel Mediterraneo. Per farlo, occorre non solo gestire gli amici di comodo, ma avere il coraggio di nominare i nemici reali: un esercizio che le classi dirigenti italiane dovranno ricominciare – loro a malgrado – a fare.

Sergio Filacchioni

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