CasaPound dall’interno, alla scoperta di una Roma rivoluzionaria
Lo speciale della rivista francese Éléments su CasaPound – parte seconda. Di David L’Épée
Pound, D’Annunzio, Sorel…
Il vasto edificio di sei piani nel quale entriamo, costruito durante il periodo mussoliniano – come si evince dalla sua specifica architettura e in particolare dalle grandi scale interne -, fu requisito dai militanti per un’occupazione non conforme. Un termine a loro molto caro per marcare la differenza con i numerosi squats di estrema sinistra che pullulano nella Capitale, ma che finiscono rapidamente per incancrenirsi nel disordine e nel traffico di droga. A CasaPound regna, al contrario, una disciplina ferrea, valida sia per i residenti che per i visitatori occasionali: niente armi, droga e prostituzione. Sebbene possegga una sala conferenze, una biblioteca ed altri spazi tipici della vita militante, il palazzo è soprattutto un luogo di abitazione per le famiglie che ci vivono. La lotta all’usura, di cui il principio dell’affitto è una delle applicazioni più diffuse, fu in effetti uno dei primi cavalli di battaglia di CasaPound, che si batte affinché tutti gli italiani abbiano accesso alla proprietà di una casa, e che ha lanciato la proposta di un prestito sociale a favore della questione abitativa. Il progetto consiste, a grandi linee, in un mutuo senza interessi, bypassando le banche, le cui rate non devono superare un quinto del reddito familiare e verrebbero bloccate in caso di disoccupazione. Ed è proprio questo che spiega la scelta di aver battezzato il movimento con il nome del poeta americano Ezra Pound, autore di una critica radicale all’usura. Appassionato di simboli e miti nel senso soreliano, il responsabile della cultura di CasaPound, Adriano Scianca, ricorda l’epica impresa di Gabriele D’Annunzio che durante la Prima Guerra Mondiale, che fondò nella illegalità più totale un nuovo Stato nella città occupata di Fiume, creando «il primo esempio di riappropriazione da parte di una minoranza eroica, la prima occupazione non conforme».
Il rifiuto dell’usura
Pound, D’Annunzio, Sorel… Questi tre nomi compaiono a lettere cubitali sui muri dell’ingresso del palazzo, in compagnia di molti altri, allineati a formare una lunga ghirlanda colorata, il pantheon di CasaPound.
Iniziando da Enea, eroe della guerra di Troia e fondatore leggendario dell’antica città di Lavinio che sarà all’origine di Roma, la lista dei gloriosi antenati affonda le sue radici nei tempi più remoti (Omero, Eraclito, Platone, Marco Aurelio, Sun Tzu…), colpendo per il suo eclettismo e per la scelta di offrire un largo spazio a personaggi che non erano né fascisti, né italiani, come Yukio Mishima o il comandante Massud. Se vi troviamo numerosi franchi tiratori locali come il fondatore del futurismo Marinetti o il comunista Nicola Bombacci (che aderirà alla Repubblica Sociale Italiana senza mai rinnegare il suo marxismo), compaiono egualmente nomi della letteratura quali Hölderin, Saint-Exupéry, Orwell, Céline, Tolkien, Kerouac, Ray Bradbury, e perfino l’eroe dei fumetti, Corto Maltese.
Qualche piano più in alto, sopra un muro ai piedi del quale si staglia, come nell’antichità, un altare alla Vittoria con una corona di alloro, è dipinta una grande tartaruga rossa bianca e nera, con quattro frecce dirette verso il centro del carapace, che si impone allo sguardo di chi attraversa la porta. É l’emblema di CasaPound, un totem dalla polisemia eloquente: l’animale simboleggia allo stesso tempo la longevità, la lotta contro l’usura e il diritto alla proprietà della casa (la tartaruga porta la sua casa sulla schiena), il tutto rievocando la formazione militare romana ai tempi dell’Impero nella sua configurazione ottagonale. La stessa tartaruga frecciata si ritrova sulla grande bandiera rossa che sventola sulla terrazza dell’edificio, dalla quale si gode una vista insuperabile sui tetti del centro storico.
Zadisti in camicia nera
Una sera, decidiamo di abbandonare la grande città e di fare un’escursione nella campagna romana, non lontano dal mare. Dopo un’abbondante ora di macchina, ci fermiamo vicino Maccarese. Di fronte ad una piccola chiesa, si trova una grande casa la cui reputazione non ha nulla di cattolico, poiché è sede dell’associazione pagana Fons Perennis. Le «occupazioni non conformi» non sono in Italia un’esclusiva urbana, i fascisti campestri hanno ridato vita a questo luogo abbandonato in cui hanno realizzato uno spazio in cui si svolgono diverse attività collettive, come l’allevamento delle galline, la pratica delle arti marziali, un’esposizione permanente sull’opera di Julius Evola e una distilleria di grappa. Senza dimenticare ovviamente una stanza consacrata alle antiche divinità pagane, decorata unicamente da qualche poema e riservata al raccoglimento. Una sorta di annessione rurale di CasaPound, la comunità di Fons Perennis si colloca nella tendenza generale, che si osserva un po’ ovunque in Europa, di ritorno alla terra su base ecologica, di difesa del territorio e di riconquista di una certa autonomia. Questi zadisti in camicia nera (non è che un modo di descriverli perché sono vestiti come chiunque altro) ci trattengono per la cena. Dopo aver fatto un brindisi all’amicizia tra i popoli, su un tono molto evoliano – «Alla razza, la sola: quella dello spirito» -, ci viziano con un gigantesco pasto a base di lasagne, sformato, pancetta, crepes, formaggi e salumi, che annaffiamo con del vino e con una grappa fatta in casa il cui tasso alcolico sembra sfidare da solo tutte le convenzioni internazionali.
In questo soggiorno romano siamo un po’ disorientati: non abbiamo visto né manganelli, né olio di ricino, e nonostante le nostre conversazioni si prolungassero fino alla tarda ora, impegnandoci a far bere i nostri interlocutori, non abbiamo mai sentito nemmeno l’ombra di un commento razzista, né una parola antisemita. Quanto all’ipotesi di vicinanza con la grande borghesia e la destra affarista, abbiamo dovuto sin da subito abbandonare questa pista: ci è infatti apparso chiaramente che i fascisti portino avanti, molto più dei loro antagonisti di estrema sinistra, una guerra senza compromessi contro il capitalismo, sia come fenomeno economico distruttore, che come modello antropologico. Non posso trattenermi dal pensare che il lavoratore jüngeriano, lo Spartano, lo squadrista, il monaco soldato o il poeta in armi di Fiumi non siano poi così lontani dal bolscevismo…
Un fascismo difficilmente esportabile
Una mattina ci ritroviamo nella sala conferenze di CasaPound in compagnia di Simone Di Stefano, segretario nazionale del movimento e più volte capolista quando i fascisti si sono presentati alle elezioni. Dalle finestre vediamo il sole autunnale accarezzare la facciata della basilica di Santa Maria Maggiore, situata a due passi dal quartier generale. Il quarantenne con barba e capelli sale e pepe, tagliati corti, è stato condannato dalla giustizia diverse volte, in particolare per aver rimosso una bandiera della comunità europea, sull’edificio della sua sede romana. Seduto con la schiena ben dritta davanti a noi, risponde alle nostre domande con una voce sicura, mentre sembra fissare un punto dell’orizzonte. Intrigato da tutto quello che ho visto questa settimana a Roma, gli chiedo: «Ma in fondo, quello che voi chiamate fascismo, non sarebbe piuttosto una forma molto specifica e molto italiana di socialismo?» Di Stefano mi lancia uno sguardo divertito e risponde: «Se, da socialista, mi chiedi una cosa del genere, dovresti forse domandarti se non sei tu ad essere un po’ fascista…» Ridiamo attorno al tavolo. Non posso prenderla che per una battuta, sia perché non sono italiano, sia perché il fascismo per come lo concepiscono e lo applicano i ragazzi di CasaPound, mi sembra difficilmente esportabile, tanti e grandi sono gli equivoci attorno a questo tema solforoso. Questa immersione nel mondo labirintico e avventuroso dei «ragazzi dalla tartaruga frecciata» ci avrà perlomeno fatto comprendere che le parole più ordinarie del nostro vocabolario politico esprimono a volte tutt’altro rispetto a quello che siamo abituati a pensare.
Blocco Studentesco – Rivolta contro il mondo troppo scialbo (in francese c’è un gioco di parole intraducibile, n.d.t.)
Roma, quartiere Tuscolano. In piedi, in silenzio, una quarantina di giovani dai 14 ai 22 anni ascoltano religiosamente il loro capo fare il bilancio della settimana trascorsa e dare le direttive per la seguente. Sono i militanti del Blocco Studentesco, l’ala giovanile di CasaPound. La stanza ricoperta di poster e graffiti politici nella quale si riuniscono non è un locale come tutti gli altri, ma il cuore della sezione di Acca Larentia, dove il 7 gennaio 1978, Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni, tre militanti del Fronte della Gioventù, loro coetanei, vennero assassinati, i primi dagli antifascisti, il terzo dalla polizia. Un luogo profondamente segnato dalla tragica storia di quegli «anni di piombo» che hanno insanguinato l’Italia e forgiato una mistica militante che non lascia nessuno spazio al dilettantismo, né alla cialtroneria. Qui, chiunque varchi questa porta sa che l’impegno politico è una cosa seria e che può a volte condurre al sacrificio estremo. La sensazione di far parte di un lignaggio di combattenti politici e l’obbligo di mostrarsi degni dei martiri del passato sono infatti gli elementi centrali dell’impegno di questi ragazzi e ragazze (quasi in pari numero, cosa assai rara nel panorama radicale) di diversa tipologia e origine sociale, testa rasata o capelli colorati, tatuaggi e piercing, ovvero tutta la panoplia ed i codici stilistici della loro generazione.
Nato nel 2006, il Blocco conta oggi più di un centinaio di sezioni in tutta Italia e diverse migliaia di aderenti e simpatizzanti. Il suo intenso attivismo locale – che unisce rivendicazioni prettamente territoriali a problematiche nazionali – gli ha permesso di ottenere dei risultati importanti in diversi licei e università e di disporre di numerosi eletti. In un contesto di grande precarietà economica e sociale, questo movimento incarna una forma di rivolta contro il fatalismo e il rifiuto di un sistema sclerotico in cui le false alternanze «destra – sinistra» e i «governi tecnici» non hanno portato alcuna soluzione concreta alla degradazione dell’insegnamento, alla disoccupazione endemica (più del 30% tra i giovani di 15-30 anni nel Lazio) e all’assenza di prospettive per un’esistenza decente. Ormai il Blocco è diventato un attore importante della vita scolastica e universitaria italiana, contestando la vecchia egemonia della sinistra e suscitandone logicamente l’ira. Una insoddisfazione carica di odio che si è concretizzata attraverso diverse aggressioni fisiche contro membri e dirigenti del Blocco, in particolare a Napoli. Se si aggiunge a questa violenza antifascista, la repressione poliziesca e giudiziaria che si scaglia regolarmente contro di essi, sarebbe un eufemismo dire che la vita dei militanti del Blocco sia ben lungi dall’essere tranquilla.
Traduzione di Chiara Del Fiacco
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