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Una scuola per il sistema: la “rivoluzione” conforme di Valditara

by Sergio Filacchioni
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Valditara

Roma, 30 lug – Nel suo nuovo libro La rivoluzione del buon senso (Guerini e Associati, 2025), il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara espone la propria idea di scuola e società, tracciando una linea apparentemente netta di demarcazione rispetto all’egemonia culturale progressista degli ultimi decenni. Tuttavia, dietro la promessa di riforma si cela un progetto educativo pienamente inserito nella logica sistemica contemporanea. Una scuola ordinata, sì, ma soprattutto conforme, subalterna e precarizzante. Perché, nonostante l’apparente discontinuità, la visione di Valditara si muove entro i confini già tracciati da un paradigma politico che invece va contestato alla radice.

Valditara e il pallino del merito

Uno dei concetti su cui Valditara insiste sempre è senz’altro quello del merito, elevato a criterio fondamentale per la riforma dell’istruzione. Valditara lo definisce nel suo ambito costituzionale – «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» – contrapponendolo a un presunto egualitarismo livellatore che avrebbe dominato la scuola italiana negli ultimi decenni. L’intento dichiarato è certamente nobile: premiare chi si impegna, valorizzare la fatica e il talento, contrastare la deresponsabilizzazione diffusa. Tuttavia, ciò che manca completamente in questa visione è una riflessione sulle condizioni di partenza. In un sistema fortemente diseguale come quello italiano, parlare di merito senza interrogarsi sulle basi materiali dell’accesso all’istruzione significa semplicemente legittimare una piramide sociale e valoriale già esistente. Chi nasce in contesti familiari, culturali o economici svantaggiati parte con un handicap strutturale. Il “merito”, in queste condizioni, diventa un dispositivo di selezione più che di equità. La scuola proposta da Valditara, quindi, non emancipa: consolida. E la sua visione di merito sembra più che altro improntata alla difesa del libero mercato che ad una radicale messa in discussione dei meccanismi che tengono bloccato il nostro “ascensore sociale”. Per il Ministro, Bruxelles deve assomigliare più alla Londra della Thatcher o alla Washington di Reagan che alla Berlino della Merkel o alla tecnocratica Parigi di Macron.

La scuola come fine produttivo

Inutile sottolineare che la concezione della scuola che può emergere da queste riflessioni è fortemente orientata alla dimensione produttiva. Per Valditara, l’istruzione è funzionale al sistema economico, e il valore dello studente si misura sulla base della sua futura produttività. Ma una scuola piegata alla logica dell’impresa non è più un’istituzione formativa, bensì uno spazio di precarizzazione. In questo modello, non c’è posto per la riflessione critica, non c’è posto per la cultura come strumento di disciplina interiore e presa di possesso della propria coscienza storica, non c’è posto per la costruzione dell’uomo integrale. Si forma il lavoratore, non il cittadino; si premia l’efficienza, non il pensiero. La scuola viene così ridotta a dispositivo di ottimizzazione del capitale umano: l’antitesi esatta di una visione che vede nella scuola il primo luogo della formazione integrale dell’uomo, non della sua funzionalizzazione. Tutto questo, ovviamente, ignorando le vere diseguaglianze create dal capitalismo finanziario e globalizzato, che però Valditara bolla semplicemente come frutto delle logiche della sinistra: “sventolando strumentalmente la bandiera della lotta al ‘liberismo’ e alle disuguaglianze, i movimenti di sinistra si propongono in realtà di smantellare il libero mercato tout court”. In questo senso, il Ministro pone in essere la “legittimità stessa del capitalismo in quanto tale” sfoderando uno dei più terribili luoghi comuni sulla storia del Novecento: “le guerre del XX secolo sono state spesso promosse da regimi in tutto o in parte anticapitalisti”.

L’identità buona per l’Unesco

Uno dei capitoli centrali del libro affronta il tema dell’identità nazionale. Valditara rivendica l’appartenenza alla tradizione greco-romana, cristiana e illuminista. Il solito “triangolo sacro” Atene-Roma-Gerusalemme, molto diffusa nei conservatori, per cui tutta la storia occidentale ed europea si chiude nel binomio cristianesimo e democrazia: “l’Europa è la culla di una civiltà, quella occidentale, quella che ha pensato e praticato la democrazia, insegnato la libertà, educato all’umanità, coltivato la buona fede, praticato l’equità”. Tuttavia, questo è un richiamo vago, idealizzato e astorico, perchè vede nell’Occidente cristiano-giudaico la fonte univoca di tutti i “buoni” valori. Manca qualsiasi riflessione sull’identità come forza viva, capace di orientare comportamenti, visioni del mondo e appartenenze radicali. L’identità diventa così una cornice retorica, costituzionale, buona per legittimare un “patriottismo” compatibile con l’ONU, l’Unesco e le logiche del mercato globale. Nel testo, non c’è traccia del concetto di comunità come destino, né dell’appartenenza come forma di vita superiore e rivoluzionaria. Soprattutto, non c’è spazio per la dimensione conflittuale dell’identità, che oggi ha sempre più nemici dichiarati. L’identità che Valditara difende è quella perfettamente compatibile con il sistema: inoffensiva, sterilizzata, esibita come simbolo, ma mai vissuta come principio e missione mobilitante. Una maschera culturale, utile per dare una patina di tradizione a una scuola che, nei fatti, è profondamente post-identitaria. E non stupisce che in quest’ottica si arrivi agli stessi risultati decostruzionisti del wokismo tanto inviso al Ministro: “È il concetto stesso di razza a essere fallace”, spiega “lo sviluppo della genetica e dell’antropologia ha dimostrato l’inconsistenza delle conclusioni razziste e la probabile derivazione di tutte le specie umane da un unico ceppo”. E così anche la cittadinanza diventa una funzione di adesione valoriale, non un’appartenenza reale, biopolitica: “la concessione della cittadinanza dovrebbe essere concepita come il compimento di un percorso di condivisione di diritti e di doveri, così come di valori fondanti la comunità” mentre “dovrebbe presupporre un giudizio sul grado di integrazione e quindi concretamente sull’assenza di reati e sulla condivisione dei valori fissati nella carta costituzionale”. Ius scholae serviti pure!

Lo sceriffo Valditara

Altro pilastro della proposta valditariana è il recupero del principio di autorità. Non poteva certo mancare in questo pot pourri di luoghi comuni della destra. Il ministro scrive che “l’autorità non riconosciuta porta alla fine all’anarchia e alla violenza […] A farne le spese sono i più deboli, i più miti, le persone più ragionevoli”, e si scaglia contro il permissivismo e l’indebolimento del ruolo del docente portando il solito esempio del cellulare in classe. Intendiamoci, è un punto sul quale si potrebbe anche trovare una parziale convergenza, se non fosse che l’autorità che Valditara propone è priva di dimensione formativa o anagogica, anzi, secondo lui le colpe sono “esterne” alla scuola perchè attribuisce la crisi dell’autorità a genitori permissivi e troppo tolleranti. L’autorità così diventa controllo sbirresco che non si fonda sulla forza interiore del docente, ma sul rispetto delle procedure. Non è guida, ispirazione, trasmissione di senso e quindi di disciplina ma una postura caricaturale che assomiglia a quella del preside Skinner dei Simpson. Nel testo infatti, l’autorità è funzionale al mantenimento dell’ordine, non alla costruzione dell’uomo. Si tratta di un’autorità amministrativa, burocratica, perfettamente coerente con l’ideologia del management scolastico. La relazione educativa viene così impoverita, ridotta a dinamica aziendale, mentre il rapporto maestro-allievo – fondamento di ogni vera trasmissione culturale – scompare. Mentre la dimensione fisica e corporea, invece, viene del tutto ignorata a vantaggio di una pedagogia totalmente nozionistica.

Una critica alla funzione

La critica alla visione di Valditara non può limitarsi al contenuto delle sue proposte. È una critica alla sua funzione: quella di rendere più efficiente un modello educativo che ha già fallito. Il progetto del ministro è quello di una scuola ordinata ma sterile, reattiva ma non creativa, conservatrice ma non rivoluzionaria. Una scuola che serve il sistema, senza metterlo in discussione. Ecco perché “rivoluzionario” vorrebbe dire rivendicare un modello diametralmente opposto: una scuola che non educhi alla produttività, ma alla libertà reale. Dove la cultura non sia ridotta a fine economico, ma sia vissuta come tensione verso bellezza, natura, eccellenza (i valori propriamente europei). Una scuola che formi l’uomo nuovo: integro, radicale, militante. Dove il sapere è lotta e costruzione, non prestazione. Contro il “buon senso” – parola che insieme a “normalità” nasconde sempre il peggior marciume borghese – il rivoluzionario rivendica il coraggio del «vivi pericolosamente!». Contro la scuola del sistema si costruisca la scuola della volontà.

Sergio Filacchioni

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