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Dominique Venner, o della Grande salute

by La Redazione
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vennerprimatoPrima del 21 maggio 2013, il nome di Dominique Venner non doveva significare molto per l’ambiente nazionalista militante italiano. Nulla a che vedere, per esempio, con la grande (e meritata, del resto) popolarità che riscuote oggi da questa parte delle Alpi un pensatore come Alain de Benoist. Il che è in effetti curioso, essendo lo spirito italiano – e fra gli italiani “di destra” in modo ancor più marcato – più incline all’interesse storico, all’emozione, all’immagine che non alla teoria, al ragionamento, all’erudizione.

Eppure i libri di Venner tradotti nella lingua di Dante erano e sono tuttora due: “Baltikum” e “Il bianco sole dei vinti”, per giunta in edizioni molto vecchie e di fatto introvabili. Esiste, è vero, un’attenzione sempre molto alta nei confronti dell’ampia nebulosa della Nouvelle Droite, cosicché al lettore italiano interessato a scoprire quali siano stati i primi passi del Grece deve essere capitato, fra le pagine di qualche libro sulla “destra degli dei”, di leggere più volte il nome di Dominique Venner. Ma si tratta di una conoscenza asettica, astratta, che non rende giustizia a questa personalità straordinaria.

Se la conoscenza mediata, intellettuale di Venner deve ancora farsi largo nella sua pienezza fra le nuove generazioni non conformi italiane, è vero del resto che esiste una forma immediata, non libresca di conoscenza. È il senso del sangue, che poi è il senso del sacro. Esiste, da noi, una sensibilità immediata per il sacrificium, per la fondazione attraverso l’effusione di sangue, radicata forse nella memoria ancestrale di chi calpesta lo stesso suolo che fu reso sacro da Romolo. C’è un linguaggio più sottile, più impalpabile di quello che Venner utilizzava nei suoi libri, un modo di comunicare più profondo e più potente, fatto di ierogrammi essenziali, una archi-écriture, direbbe Derrida, che tuttavia utilizzava il termine con significato e finalità filosofica-politica opposte. È grazie a questa scrittura originaria che è prima di ogni libro che possiamo dire che se, fra i giovani militanti italiani, pochi hanno conosciuto Venner, allo stesso tempo quasi tutti lo hanno ri-conosciuto istantaneamente.

Molti di coloro che nella sua patria hanno voluto ricordare Venner hanno messo in evidenza una caratteristica esistenziale di quest’uomo: “la tenue”. È un’espressione che esiste anche in Italia (“la tenuta”) ma che nella sua essenza è di fatto intraducibile. Ed è intraducibile perché la “parola” esprime una “cosa” a cui la nostra sensibilità è disabituata.

C’è, in questa differenza, un elemento che ha che fare col carattere nazionale di un popolo ma anche un dato storico. Dominique Venner, come per esempio Jean Mabire, aveva conosciuto la guerra e, forse, era rimasto per sempre un soldato. Questo tipo umano, in Italia, è scomparso da quando sono scomparse le guerre.

Da Marinetti a D’Annunzio, l’Italia è stata la patria dei poeti soldati. Lo è stata finché ha combattuto guerre, finché ha deciso di recitare un ruolo nel mondo. Dopo il 1945, tuttavia, la sua vacanza dalla storia ha generato una scissione fra teoria e prassi, fra pensiero e azione la cui ombra si è allungata anche sull’ambiente non conforme italiano. Non che nel dopoguerra siano mancati in Italia esempi luminosi di uomini integrali, capaci di saper coltivare splendidamente l’uno e l’altra aspetto. Ma la serenità, la completezza, la pienezza che ha chi ha visto la trincea difficilmente può essere paragonata con le esperienze pur intense di chi ha vissuto la lotta armata come quella che ha attraversato l’Italia negli anni ’70.

Nella parabola esistenziale di Venner, quella che Nietzsche chiamava la “scuola militare dell’anima” è riuscita a cesellare uno stile di vita integrale, una durezza dai tratti delicati, un obbligo imperioso di esemplarità. Una aristocrazia dello spirito e della carne in cui manca ogni aspetto di teatralità, ogni apparenza di sforzo, ogni brandello di egocentrismo. “Autenticità”, avrebbe detto l’ultimo pensatore citato da Venner prima del suo sacrificio, ovvero Martin Heidegger. Eigentlichkeit, in tedesco. Cioè il libero perseguimento del proprio (eigen) essere nel mondo, contro la dispersione nella chiacchiera, nella curiosità e nell’equivoco.

La conclusione terrena – violenta, struggente e perfetta – di questa ricerca dell’autenticità è stata ovviamente raccontata, in Italia esattamente come in Francia, come un gesto di follia e rancore. Un atto malsano, generato dal mefitico fermentare del risentimento e della paranoia. Il quotidiano progressista italiano La Repubblica parlò del ritorno della “Francia dell’odio”. Una lettura che chi è di buon sangue, al di qua e al di là delle Alpi, ha invece subito istintivamente rifiutato, indipendentemente dalla sua conoscenza dell’avventura intellettuale di Venner.

Quel suo gesto sacrificale, al contrario, ci appare oggi come un atto luminoso, solare. Come lo sfolgorare delle stelle, che donano luce senza chiedere nulla in cambio, senza una ragione, senza un calcolo. Non è stato un gesto dettato dalla malattia. È stato, al contrario, il sintomo di una sovrabbondanza di salute. La grosse Gesundheit di cui parla Nietzsche nella Gaia Scienza:

“Noi nuovi, senza nome, difficilmente comprensibili, noi prematuri di un futuro ancora non dimostrato – abbiamo bisogno, per un nuovo fine, anche di un nuovo mezzo, ovvero di una nuova salute, più forte, più scaltra, più tenace, più ardita, più impavida di quanto non lo siano state sinora tutte le saluti […] Una grande salute – tale che non solo la si ha, ma la si conquista e la si deve conquistare di continuo, perché di continuo la si sacrifica, la si deve sacrificare!”.

 Adriano Scianca

(Articolo uscito, in francese, sull’ultimo numero della rivista Livr’Arbitres)

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