Roma, 29 ott – La Storia non è finita. Sembrerebbe una banalità, oggi, smentire la teoria di Francis Fukuyama, sentenziatore di una precoce fine di quel percorso che, dal 3000 avanti Cristo, narra le vicende dell’esistenza dell’Uomo. E dunque, ne va di conseguenza che gli Uomini stessi non siano più in grado di fermare questo trascorrere di eventi, in cui – da epoca in epoca – sono scaturiti i più significativi fenomeni rivoluzionari. Uomini che hanno preso il proprio posto nella storia con Volontà di Potenza, comprendendo il mutare degli scenari politici e culturali del proprio tempo; ed altri che, ancorandosi a un principio teorico rivelatosi inconcludente, vi sono rimasti incagliati.
I Rivoluzionari guidano l’Azione
La differenza fondamentale tra chi sceglie di far proprio il trascorrere della Storia e coloro i quali vi restano arenati, sta nell’applicazione pratica di una teoresi. Fu Giovanni Gentile a introdurre l’idea di Spirito come atto puro che crea la realtà dal divenire, dall’evolversi, dalla modifica di uno stato di cose, applicandolo alla Storia, scindendo fondamentalmente l’idealismo novecentesco dalle precedenti tesi storicistiche o cicliche. E sono dunque coloro che agiscono con fini rivoluzionari ad avere una concezione attiva del Divenire. Napoleone applica gli ideali della Rivoluzione Francese fondando le basi dello stato-nazione ottocentesco, mantenendo comunque i principi di aristocrazia propri dell’Antico Regime; Garibaldi muove una spedizione per unificare la parte meridionale dell’Italia preparando un accordo vantaggioso con la Corona; Mussolini guida l’Insurrezione comprendendo che i tempi richiedessero una svolta definitiva verso il pragmatismo, e che la più grande Rivoluzione europea del Novecento non si sarebbe fatta in un giorno.
La prassi vince sulla teoresi
Tutte le più importanti filosofie politiche della Storia si sono scontrate con la realtà. Solo a seguito di un confronto tra teoresi e prassi, si è capito quali di queste abbiano avuto ragione; il confronto porta a due tipi di reazioni, una di indignazione – e di conseguenza di “dissenso”, ossia di teorica divergenza con lo stato delle cose, caratterizzato dall’immobilità – e l’altra di ribellione – di stampo prettamente pragmatico, mobile, atto alle finalità rivoluzionarie. In questa ottica, è abbastanza evidente che il dissenso non porti alcun tipo di mobilità, è critica fine a sé stessa, non ha una natura propositiva ma negativa. Il dissenso rende l’arroccamento tipicamente reazionario e conservatore – tipico di monarchici, nobili decaduti ma anche del cinquantenne che si lamenta della gioventù spaparanzato sul divano di casa – intrinsecamente stantìo, vecchio e antirivoluzionario, non riesce a vedere lo scorrere del tempo e di conseguenza il trascorrere degli eventi, e quindi continua a criticare un feticcio di mondo che si riposiziona, che diviene, gentilianamente parlando. Ma la storia insegna che è la mobilità a vincere sull’immobilità, l’azione a vincere sul dissenso, la prassi sulla teoresi.
Dall’Idea nasce l’Azione
“Credo nelle Idee che diventano Azioni”, diceva Ezra Pound. Ne si può dedurre un senso duplice: in primo luogo, ogni idea che non si confronti con la realtà, resta un’utopia, un’illusione. E chi resta ancorato alle illusioni non riesce a far altro che trovare modi per autoconvincersi di “aver avuto ragione”. Un’utopia è intrinsecamente votata alla negazione, sia in senso attivo – non c’è bisogno di un riscontro pratico per confermare un’idea aliena alla realtà – sia in senso teorico – non è necessario, anzi, è un tradimento, riposizionarsi e seguire orientamenti differenti. È questo il vero limite del dissenso: restare ancorati a un passato che non c’è più. E criticare – senza alcun tipo di proposta – coloro che guardano avanti, all’assalto del Futuro.
Patrizio Podestà