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La Leggenda del Piave: una storia vera tutta italiana

by Tony Fabrizio
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Roma, 4 nov – Il 4 novembre, anzi il IV novembre è una vicenda tutta italiana. Unicamente, orgogliosamente italiana. Anche se può sembrare un racconto romanzato, è pura verità dei fatti. È storia. Popolare perché fatta dal popolo e che ha concorso a fare il popolo; patriottica perché per la prima volta l’Italia veniva concepita come entità vera, come identità, come creazione dalle persone accomunate da un unico sentimento e un solo obiettivo: l’Italia e la Vittoria.

Il dodicesimo uomo della Vittoria: la Leggenda del Piave

Sarà per questo motivo che negli anni è stata fatta un’opera di depotenziamento del significato di questa data che, nonostante sia passata a indicare anche la festa delle Forze Armate, ancora resiste quell’opera di sostituzione di concetti più politicamente corretti e arcobalenamente colorati come la pace che sempre più spesso si usa in luogo di un esasperato pacifismo.

Eppure non esiste nonno, bisnonno o zio che non abbia parlato del Piave, di Vittorio Veneto, del Carso, di San Giusto, delle trincee e immancabilmente della Vittoria. Il IV novembre è essenza pura, è spirito vivente, è struttura e fibra del Dna di ogni italiano, è memoria presente e futura. È speranza, come i ragazzi del 1899, le riserve, che dopo Caporetto vanno al confine e fanno l’impresa. Il Piave: “tutti eroi o tutti accoppati” si legge ancora su un muro. Furono eroi tutti. L’Italia è piena di eroi ancora oggi, ne ha ogni paese, ogni borgo, ogni posto che prima non era nemmeno Italia, ma le loro imprese hanno contribuito a realizzare la Nazione. Eroi ricordati dal nome delle numerose vie in ogni città fino a che la capitale d’Italia, Roma, non ha dedicato una via addirittura alla Leggenda del Piave, dalle parti del rione sallustiano. Perché non puoi dire IV novembre se non dici Piave e non esiste italiano che non conosca la famosa canzone dedicata al glorioso fiume che assiste e partecipa persino alla sua personificazione:

Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero”. / “No” disse il Piave, “No” dissero i fanti / Mai più il nemico faccia un passo avanti. / E si vide il Piave rigonfiar le sponde / E come i fanti combattevan le onde / Rosso del sangue del nemico altero. / Il Piave comandò: “Indietro va’, straniero”.

Un altro fante, il dodicesimo uomo, diremmo oggi. L’elemento in più, il valore aggiunto. Tanto che il generale Armando Diaz, il generale della Vittoria, in onore del quale tanti bambini nati dal 1918 in poi furono chiamati Firmato credendo fosse il nome chi avesse firmato il bollettino della Vittoria, vedendo l’effetto che questo brano aveva sulle truppe al fronte dopo Caporetto, spedì un telegramma all’autore del testo, il napoletano Giovanni Ermete Gaeta, vero nome di E. A. Mario, dicendogli che avrebbe volentieri scambiato questa canzone con un suo Generale. Ciò che quelle strofe contenevano era nient’altro quello che E. A. Mario aveva potuto vivere durante la consegna della corrispondenza con i soldati al fronte. Mario era stato dispensato dal servizio militare perché ultimo figlio di madre vedova, ma egli, impiegato alle Poste e Telecomunicazioni, volle ugualmente prestare il servizio alla Patria perché credeva che ricevere notizie delle famiglie per i soldati e dei soldati per le famiglie contribuisse a tenere su il morale delle truppe.

Una canzone nata per sfida

Non fatichiamo a credere alla veridicità delle strofe oltre alla bellezza struggente del testo, perché, nel secondo dopoguerra, l’autore napoletano fu chiamato dal presidente della Democrazia Cristiana Alcide De Gasperi che gli chiese di scrivere l’inno del partito. E. A. Mario rifiutò e, con la stessa sincerità con cui aveva detto al re Vittorio Emanuele di essere “un repubblicano e non un monarchico”, rifiutò la proposta dello scudo crociato perché egli riusciva a scrivere “solo ciò che sentiva nell’animo e non su commissione”. Chissà se per ripicca, De Gasperi scelse poi Il Canto degli Italiani di Mameli quale inno nazionale. In buona sostanza, “democristianamente”, se Giovanni avesse accettato di comporre l’inno della Dc, il suo nome sarebbe potuto apparire come firma dell’inno d’Italia, la Leggenda del Piave appunto. Grazie al candore del suo animo, oggi abbiamo l’inno di Mameli.

E pensare che la Leggenda del Piave era nata proprio come una sfida: sportellista alle Poste di Napoli, Mario vedeva spesso entrare in ufficio il maestro Raffaele Segré, finché una sera del 1904, con la identitaria “cazzimma” che contraddistingue i napoletani, si avvicina al musicista, si complimenta con lui e gli dice anche che i testi che si fa scrivere sono bruttissimi: “Maestro, le vostre musiche sono bellissime, ma i testi sono tante papucchielle!”. Il Maestro stava spedendo al paese di Pulcinella il giovane ragazzo, ma il capannello di persone creatosi per perorare la causa dello sportellista convinse il musicista a mettere alla prova Giovanni e noi oggi, ma ancora di più e prima di noi i fanti che hanno fatto l’Italia, tutti possiamo godere di quella marcia che tanta carica e tanto orgoglio ci trasmette nell’animo.

Il Piave fu adottato quale inno italiano dal 1943 fino alla Costituente che non decise affatto, visto che il Canto degli Italiani è stato riconosciuto ufficialmente inno d’Italia solo nel 2017. Il Piave è più che una “leggenda” nella cultura nazionalpopolare italiana. È panismo puro, visto che d’Annunzio in persona ebbe modo di scrivere sul frontespizio che recava l’aquila bicipite (l’Austria) trafitta da un gladio insanguinato sulla cui elsa campeggiava il motto SPQR: “Non c’è più se non un fiume in Italia, il Piave; la vena maestra della nostra vita. Non c’è più in Italia se non quell’acqua, soltanto quell’acqua, per dissetar le nostre donne, i nostri figli, i nostri vecchi e il nostro dolore”. A dire il vero il genio di Giovanni fu foriero addirittura di un grosso dolore: la bozza del testo fu scritta su dei fogli delle Poste per inviare dei telegrammi e questo valse al giovane impiegato-poeta il licenziamento per la sottrazione di carta. Oggi, invece, lo stesso manoscritto è conservato presso il museo delle Poste italiane. Un tesoro autentico, un pezzo identitario e valido ancora oggi, cent’anni dopo. Un vero peccato che nessun gruppo musicale d’area abbia ancora messo in atto un nuovo arrangiamento di questo nostro capolavoro.

Tony Fabrizio

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