Roma, 15 dic – “Per il futuro, l’avanguardia, la Rivoluzione”. Questa forse è l’unica frase in realistico stile mussoliniano pronunciata da Luca Marinelli. Uscite il 10 gennaio scorso le prime due puntate di “M-Il figlio del secolo”, diretta da Joe Wright. Le reazioni sono tante, i commenti con una parvenza di senso pochi e confusi.
Come un boomerang
Se alla serie va riconosciuta una certa abilità scenografica, altrettanto non si può dire di ciò che essa cerca di veicolare a livello contenutistico. Viste le premesse da cui essa partiva, il romanzo (sì, è opportuno ricordare che si tratta di un romanzo, non di un saggio storico) di Antonio Scurati, tutti quanti ci aspettavamo una propaganda sì ai limiti del grottesco, ma quantomeno ordinaria. Qui invece siamo di fronte ad un epico boomerang che, pur nei suoi errori-orrori, sta per stamparsi dritto sulla fronte di Joe Wright e Luca Marinelli. Ma andiamo per gradi.
Come ha notato anche Giordano Bruno Guerri in punta di fioretto, la serie è piena di strafalcioni. Dettati tanto dalla scarsa propensione al dettaglio (cosa che dal regista de L’ora più buia ci si poteva invece legittimamente aspettare) quanto dalle necessità propagandistiche che il regista (e l’attore protagonista) si sono prefissi. Di quelle dovute alla “disattenzione” del regista citiamone solo una particolarmente clamorosa, anche se il tema ora non è questo, per dovere di cronaca. Harukichi Shimoi vestito come un samurai dello Shogunato Tokugawa. Quando, com’è noto, il legionario-samurai si trovava perfettamente a suo agio con il fez nero e il gladio degli Arditi ricamato sulla manica della giacca. Uno scivolone grottesco dettato da un eccessivo zelo, che un tempo sarebbe stato bollato come provinciale orientalismo, di mostrare ed esagerare la stravaganza del Vate.
Un Mussolini senza idee?
Gli strafalcioni voluti invece hanno uno scopo ben preciso, cercar di mostrare il Duce del Fascismo nel peggior modo possibile. In questo il regista e l’attore protagonista mostrano una particolare abilità.
Tutto ruota intorno a Benito Mussolini e a un suo presunto cieco opportunismo che lo porta a cambiare costantemente idea come una banderuola. Anzi, il Mussolini di Marinelli non ha idee. L’unica idea fissa che ha in testa è quella di sfruttare le contingenze del suo tempo per arrivare al potere. Predicando tutto e il contrario di tutto. Argomento sul quale ci sarebbe parecchio da discutere. Visto che in realtà vi è una profonda continuità ideale e sostanziale nel fil rouge che collega il 23 marzo 1919 all’aprile 1945.
La parabola di Mussolini non fu il frutto di un continuo e repentino cambio d’idee estremamente netto, oggi socialista e domani interventista. Tutt’altro. Per rendersi conto della profondità della riflessione politica mussoliniana basterebbe leggere gli articoli di giornale, pubblicati prima sull’Avanti! e poi su Il Popolo d’Italia. Oppure le riflessioni personali del Duce, raccolte dal suo biografo Yvon de Begnac nei mastodontici “Taccuini mussoliniani”. E di come la storia politica di Mussolini, dalla militanza giovanile socialista alla guida del paese e del movimento fascista, sia frutto di una evoluzione di pensiero ben precisa, magari discontinua ma di certo organica.
Gli errori-orrori di M – Il figlio del secolo
L’opportunismo del direttore de Il Popolo d’Italia è tale che, pur di dipingerlo così, il regista stravolge e in alcuni casi “violenta” altri personaggi dell’epopea fascista. Prendiamo la prima scena, uscita come clip anche su YouTube: la fondazione dei Fasci di Combattimento in piazza San Sepolcro a Milano. All’adunata del 23 marzo 1919 viene mostrato Amerigo Dumini. Il quale invece in quel momento era appena uscito dall’Ospedale militare di Firenze e di lì a pochi mesi fonderà il primo Fascio fiorentino. Il motivo di questo inserimento fuori luogo è presto detto: il regista non vede proprio l’ora di parlare di Giacomo Matteotti. E ne ha talmente tanta voglia che, già nei primissimi cinque minuti della serie, inserisce totalmente fuori contesto uno dei protagonisti dell’azione che si svolgerà cinque anni dopo.
Al contrario, il fondatore del movimento futurista Filippo Tommaso Marinetti, presente all’adunata del 23 marzo (alla quale dedicherà anche, vent’anni dopo, Il Poema dei Sansepolcristi), non viene affatto mostrato nella storica giornata. Anzi, l’autore del Manifesto del Futurismo viene introdotto in un secondo momento. Come un intellettuale da salotto naif, con improbabili abiti arlecchini e dedito unicamente ai festini letterari nei salotti bene di Milano. Dimenticando completamente che Marinetti era presente invece il giorno dell’assalto alla sede dell’Avanti! che la serie mostra con così tanta dovizia di particolari. Insomma, altro che intellettuale da salotto.
Inoltre, il regista, conscio del fatto di non poter tirare troppo la corda su figure intellettuali di tale caratura, Marinetti e D’Annunzio in primis – ma si potrebbe anche parlare di Margherita Sarfatti – cerca in tutti i modi di dissociare tali personaggi dal Fascismo. Quasi a volerli “assolvere” da questa accusa che, a quanto pare, pesa più di quella di stregoneria nelle 13 colonie puritane del XVII secolo. È legittimo altresì pensare che, se D’Annunzio, Marinetti e la Sarfatti potessero parlare, probabilmente direbbero al regista: ma chi ti ha chiesto di dissociarci? Chi ti ha chiesto di assolverci?
Una seria grottesca e – allo stesso tempo – epica
Tutto ciò è condito da scene a contenuti espliciti piazzate qua e là senza nessuno scopo preciso. Se non quello di alimentare la solita solfa dell’infedeltà coniugale di Mussolini. Insomma pur di dipingere il capo del Fascismo come un opportunista privo di qualsivoglia principio, ideale e morale, il regista è stato disposto a ritrarre (e a snaturare): Marinetti come un intellettuale da salotto che alla prima divergenza di vedute con Mussolini esce di scena pestando i piedi, indignato come un borghesuccio snob qualsiasi, D’Annunzio come un cocainomane troppo innamorato di sé stesso e della sua leggenda per preoccuparsi delle sorti del Fascismo e Margherita Sarfatti come una colta e raffinata prostituta, nonché eminenza grigia di Mussolini (ruolo che condivide con Cesare Rossi).
Ebbene, nonostante tutto questo, la serie potrebbe diventare uno splendido boomerang che, tornando indietro, farà in mille pezzi gli scopi propagandistici che il regista si era prefisso. Pensiamoci bene e siamo onesti: pur nel suo essere spesso grottesca la serie presenta dei vertici di epicità non indifferenti. Prendiamo due esempi (e ce ne sarebbero altri) dalla prima puntata: la scena della fondazione dei Fasci di Combattimento e quella che ritrae l’inizio dell’impresa fiumana.
Non sarebbe la prima volta che…
La prima, pur con un Marinetti di meno e un Dumini di troppo, è forse la più realistica nel messaggio che veicola. La scena è un inno alla trincerocrazia. Agli eroi che dopo la guerra vengono abbandonati dai borghesi arricchitisi durante il conflitto e derisi dai socialisti che, per tutta la durata dello stesso, hanno infestato l’Italia di propaganda antinazionale.
Da qui parte il desiderio di riscatto. La voglia di farla pagare a tutti quanti, il sentimento di rivalsa che anima coloro che, durante la Grande Guerra, hanno saputo divenire eroi tra gli eroi: Arditi, Compagnia della Morte, Caimani del Piave. La seconda è anch’essa tratteggiata da picchi di epicità indiscutibili. I volontari di D’Annunzio gridano “O Fiume o morte!” battendo il passo ritmato, con il Vate che sfida a viso aperto il comandante della guarnigione che vorrebbe impedire il passaggio dei legionari fiumani che marciano compatti. Semplicemente esaltante.
Insomma, non ci sarebbe da stupirsi se la serie, magari agli occhi di un pubblico molto giovane, trasmettesse qualcosa che va nella direzione opposta a quella per cui il regista aveva pensato il tutto. Non sarebbe assurdo che magari a qualche ragazzino, che non si è mai interessato di politica o di storia, resti impressa una delle due scene sopracitate e pensi: “ammazza… che fighi ‘sti squadristi”. In fondo, non sarebbe la prima volta in cui la propaganda antifascista nel cinema finisce per annullarsi con le sue stesse armi. Del resto, tutti quanti ci ricordiamo da dove proviene la canzone Il domani appartiene a noi della Compagnia dell’Anello, vero?
Enrico Colonna