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La settima arte uccisa dalla televisione?

by Roberto Johnny Bresso
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Roma, 19 apr – “Video Killed the Radio Star” cantavano i The Buggles nel 1979, quando il gruppo, con mirabile preveggenza, anticipava cosa sarebbe successo di lì a poco nel rapporto tra i media e le nuove tecnologie, con la radio che avrebbe sempre più perso piede a favore della televisione e, in seguito, di internet.

Dal cinema alla televisione

Negli ultimi anni sto notando che questo fenomeno si sta prepotentemente riproponendo a svantaggio della cosiddetta “settima arte”, vale a dire il cinema. Sono sempre stato un grande appassionato di cinema. Un onnivoro di qualsiasi film dei più disparati generi, quindi posso vedere un capolavoro come un prodotto trash di infimo livello ed apprezzarli entrambi, se pur in maniera diversa. Eppure sempre più spesso mi rendo conto (e l’ho notato anche rileggendo i miei articoli sul Primato Nazionale, nel quale ormai di fatto recensisco molte più serie tv che film) di quanto la serialità televisiva abbia soppiantato per numero e, assai spesso, anche per qualità il classico formato in “pellicola” (anche se ovviamente la pellicola non si usa ormai più da anni).

I pochi maestri del cinema rimasti, penso a Martin Scorsese o Clint Eastwood, ormai sono anziani e, ahi noi, non dureranno in eterno. E di grandi eredi se ne scovano sempre meno. Ma temo che il problema sia proprio a monte, a livello culturale e sociale. Lo spettatore odierno non vuole più una storia che si chiuda nell’ambito di circa due ore, senza poi avere più alcun rapporto con i personaggi, se non a livello di ricordo. L’uomo contemporaneo vuole storie che si dipanino su archi narrativi estremamente lunghi, archi nei quali a volte può persino succedere poco di rilevante, ma all’interno dei quali si senta quasi coccolato dal senso di sicurezza di volti noti e situazioni familiari.

Brand e contenuto

Ecco così che ogni episodio si deve concludere con un colpo di scena, ogni stagione deve lasciare qualcosa in sospeso (il cosiddetto cliffhanger) e persino il finale definitivo a volte definitivo non è, perché non si sa mai, che se il mercato lo richiede perché non avere la possibilità di riprendere la storia in futuro? E poi abbiamo spin-off, prequel, sequel e reboot… insomma, tutto un universo quasi distopico che ha reso obsoleta la forma “banale” del film dai titoli di testa ai titoli di coda.

Ed ecco così che anche dove permane il formato del lungometraggio vi si crea una saga infinita (gli ormai insopportabili cinecomic), abbiamo la scena dopo i titoli di coda per annunciare l’ennesimo sequel, sfruttiamo vecchie idee per attirare i vecchi fan con orrendi remake, facciamo uscire film direttamente per il mercato streaming, che poi se le cose vanno bene Netflix o similari ci commissionano la serie tv… Insomma, il brand è diventato più importante del contenuto stesso, perché il brand fa vendere merchandising anche se la forma è assai scadente, perché tanto la serialità ci permette pure di avere alti e bassi a livello di qualità.

Godersi il momento

Ecco che così mi ritornano alla mente le parole di un mio caro amico, che per principio non vede le serie: “Un film viene fatto se hai un’idea, mentre con la serie tv l’idea te la puoi far venire strada facendo. Ma che senso ha?”. E, da appassionato di serie, mi tocca dargli ragione, perché dobbiamo tornare a goderci anche le cose compiute in sé: un film, una canzone, un romanzo, una partita di calcio… senza pensare al prima o al dopo, semplicemente tornare a goderci il momento che solo immense opere come Gangs of New York o Il grande Lebowski ci possono regalare. Tanto per chiudere con un consiglio per andare a scoprire, o riscoprire, due film magnificamente bastanti a se stessi.

Roberto Johnny Bresso

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