Home » Ce ne freghiamo della “memoria condivisa”

Ce ne freghiamo della “memoria condivisa”

by La Redazione
0 commento

Roma, 25 apr – Condividere, nel significato originale che ne dà il Tommaseo nel suo Dizionario della lingua italiana, non è quello che oggi, comunemente, viene riconosciuto a questo verbo. Piuttosto è un “dividersi che più fanno insieme di una cosa, in parti uguali o no”. È, appunto, un dividersi qualcosa con qualcuno; magari dopo un gentleman agreement: comunque un atto che sancisce una divisione. A me questo, a te quello. E però, un verbo che segnalava la spartizione di qualcosa, nel suo significato colloquiale è oggi pervertito nel senso di “avere o mettere in comune con altri”. Hanno contribuito alla perversione semantica i social network, benché il verbo “to share” – usato trasversalmente per significare appunto la condivisione di contenuti – anche in inglese voglia dire “dividere”, “spartire”, e solo in senso figurato “prendere parte” a qualcosa (col sostantivo “share” si indica il vomere dell’aratro). Non stupisce, infatti, che siano soprattutto i contenuti “divisivi” a generare engagement.

25 aprile, antifascismo e “memoria condivisa”

Memoria, invece, è termine che oggi deve la sua perversione soprattutto all’abuso propagandistico che ne fanno i soliti noti, coi toni lacrimevoli che tutti sanno. Le accuse generalizzate di smemoratezza collettiva colpiscono in realtà in maniera selettiva, e con perfetta malafede. Non è una novità: da ottant’anni l’uso politico della memoria antifascista ci delizia coi soliti sermoni, e non solo quelli. Ma disgustano oggi, tanto più di ieri, per quell’aria svagata di rituale onanistico, fatto perlopiù da gente che mischia senza più saperne il confine, tanto la superbia nuda e cruda quanto l’esibizione pornografica di quella stessa incosciente superbia. Ci si potrebbe persino immaginare, uscendo queste ramanzine da bocche estenuate di una classe dirigente decadente e al tramonto di tutto, una qualche loro perversione sessuale scandita da un preciso calendario di festività nelle quali dare il meglio di sé.

Certo, si sa, ogni classe dirigente ha bisogno di giustificare sé stessa con dei miti fondativi, con una qualche epica più o meno posticcia. Così è stato, ed è, anche per quella antifascista, benché oggi siano vittime della loro stessa pseudofilosofica foga smantellatrice o decostruente. La ipersensibilizzazione della memoria è per certi versi figlia della postmodernità, e di una società liquida che avendo perso quasi ogni tipo di coordinate – ideologiche, etiche, anche geografiche – fa sentire il rifiuto delle società contemporanea come una perdita della tradizionale presa ideologica che pure avevano su di esse. Ma d’altronde sappiamo bene quanto gli antifascisti, soprattutto i nostrani, siano bravi a piangere sul latte da loro stessi versato.

Un florilegio di richiami alla memoria e di date commemorative nazionali ed internazionali che non a caso si è moltiplicato, coi toni da piagnisteo che si diceva, alla fine del secolo scorso. Ha contribuito all’isterismo antifascista, soprattutto dagli anni Novanta, la riemersione di una pubblicistica storiografica critica, o perlomeno non di comodo, sugli accadimenti dell’ultima guerra mondiale e del fenomeno partigiano. Il revisionismo, termine inteso ed utilizzato allora come oggi in senso spregiativo, anche nei confronti di opere storiografiche ineccepibili dal punto di vista scientifico, è diventata l’accusa preferita degli addetti alla cultura di una classe dirigente antifascista che ha faticato a ritrovare – e per certi versi ha smarrito in gran parte – un proprio ordine e il consenso popolare dopo la fine della Guerra fredda.

Il motore della storia è il continuo scontro

È inutile, qui, entrare nel merito delle varie querelle storiografiche; si sanno a grandi linee quali sono i nodi principali più dibattuti del nostro passato recente, e quali e quante le parole spese pro e contro. Tanto più che l’anti-antifascismo non è nato negli anni Novanta, ma già subito nel dopoguerra, per il quale una parte del merito va a un simpatico iperattivo come Leo Longanesi. Molti di quei polemisti di razza erano dei conservatori, quando non anche dei reazionari: comunque sempre anticomunisti, spesso antidemocristiani, raramente fascisti. E tuttavia la nascita della favoletta su una “memoria condivisa”, almeno nei termini di un preteso finale di partita a tarallucci e vino, è cosa recente e nata dall’intersezione di più fattori.

La perdita della presa antifascista su una certa narrazione popolare e di un relativo ordinamento politico, l’insorgenza poi di una pubblicistica vista e vissuta come ostile, non ha indotto gli addetti alla cultura dell’antifascismo militante a più miti consigli, o a toni più concilianti. E in fondo è naturale che sia così, per chi è erede di quella parte di classe dirigente social-comunista che ha dovuto costruire le forme del proprio potere, e ha voluto e potuto farlo sul partigianato – su chi letteralmente si è speso per una parte e la spaccia per totalità, escludendo quasi tutto il resto come irriducibilmente nemico. E infatti la macelleria messicana di ottant’anni fa, degli omicidi politici perpetrati nottetempo, poi di piazzale Loreto e delle esecuzioni sommarie nel nord Italia a guerra finita, hanno per sempre tracciato un solco. La guerra civile ha sancito sì una con-divisione, ma da intendersi letteralmente: nel senso che si è compiuta una spartizione delle anime degli uomini e della nazione, anche da un punto di vista della sovranità nazionale e della percezione della stessa.

Perciò non ci può essere “memoria condivisa”, neanche ottant’anni dopo. E non è questione di lontananza nel tempo dai fatti, come certe cariatidi esauste pensano come un sufficiente motivo. Sono favolette buone al massimo per un Pierferdinando Casini, che dovendo tirare la prossima volata al Quirinale, da vecchia volpe democristiana anche quest’anno ha dato il meglio di sé in tal senso. Noi – come del resto gli antifascisti – della “memoria condivisa” ce ne freghiamo, non solo perché i motivi di fondo dell’irriducibilità permangono, nonostante i tempi mutati, ma anche perché chi ne parla dimostra di non aver capito che il motore della storia è il continuo scontro di volontà individuali e collettive, e chi vorrebbe spegnerlo in un abbraccio petaloso è semplicemente un ingenuo che abdica al proprio orizzonte di senso nel mondo.

Matteo Faggi

You may also like

Commenta

Redazione

Chi Siamo

Il Primato Nazionale plurisettimanale online indipendente;

Newsletter

Iscriviti alla newsletter



© Copyright 2023 Il Primato Nazionale – Tutti i diritti riservati