Roma, 25 giu – L’ennesimo cortocircuito ideologico dell’antifascismo ci arriva dall’Università di Trento, dove una rappresentante del Consiglio degli Studenti è apparsa in una foto con una maglietta raffigurante la Barbie in versione Brigate Rosse.
L’antifascismo borghese e i suoi idoli
Una posa “ironica”, a suo dire, subito seguita dalla solita girandola di scuse e distanziamenti, a destra come a sinistra. Tutti a dire che no, non era un’esaltazione del terrorismo rosso, solo una provocazione, un errore, una leggerezza. Eppure non c’è nulla di leggero nell’indossare il simbolo di un’organizzazione responsabile di omicidi, sequestri e anni di piombo. Non c’è nulla di “pop” in quel logo, nulla di “modaiolo” nella stella a cinque punte impressa sulle lettere minacciose di chi sparava alla schiena. Ma nell’epoca dell’Instagram militante e dell’antifascismo da salotto, tutto si può usare come accessorio, come posa, come outfit.
L’infantilizzazione dei simboli dell’antifascismo
È un atteggiamento che ormai conosciamo bene: lo stesso che porta certi “studenti impegnati” a gridare slogan sulle Foibe o a disprezzare le vittime del comunismo salvo poi fare dietrofront non appena scatta la polemica. Lo stesso che considera la Repubblica Sociale Italiana un’infamia da censurare ma trova “romantico” e “artistico” inneggiare ai gruppi armati della sinistra radicale. Questa infantilizzazione del simbolo, questo gioco macabro del “vestirsi da rivoluzionari” senza accettarne le conseguenze, è il vero nodo. Si gioca a fare i partigiani, i brigatisti, i fascisti, senza capire – o fingendo di non capire – che la Storia non è una maschera di carnevale o un meme da inviare al proprio gruppo di amici. Non tutto è una battuta da poter spiegare dopo. I morti non sono uno sfondo per le stories di Instagram, né un mezzo per ricevere like da ambienti politicamente conformi, e non.
Giocare a fare i rivoluzionari
E allora ci troviamo davanti a una realtà inquietante: da una parte l’uso dissennato della simbologia brigatista, dall’altra la solita amnesia selettiva di chi si scandalizza solo quando il bersaglio è politicamente scomodo. Nessuna leggerezza sarebbe mai tollerata se il simbolo sulla maglietta fosse stato un altro. Nessuno avrebbe parlato di “provocazione” o “scherzo”: una classe di maturandi romani del Malpighi non più tardi di una settimana fa è finita sui giornali nazionali per una foto in posa con il saluto romano. Per loro, ovviamente, si è auspicato il campo di rieducazione. Il problema comunque non è tanto la maglietta, e nemmeno l’insopportabile doppia misura della sinistra. È l’atteggiamento. È il borghese che gioca a fare il rivoluzionario con lo zainetto firmato, l’ultras da tastiera che non ha mai letto un libro di storia, l’intellettuale che si atteggia a dissidente mentre ripete gli slogan del pensiero unico.
Non tutto può essere derubricato
Alla fine, resta un’immagine: una studentessa che posa con un simbolo di morte e sangue e un’intera comunità accademica che si affanna a dire che no, era solo una provocazione. Ma la verità è che non tutto può essere derubricato a provocazione. Non tutto può essere un gioco.
Vincenzo Monti