Roma, 12 sett – La morte di Charlie Kirk, leader conservatore americano, non ha aperto soltanto un dibattito negli Stati Uniti. Ha squarciato il velo sull’ipocrisia di un certo mondo politico e mediatico occidentale, Italia compresa.
La gioia antifascista per la morte di Kirk
Le reazioni che abbiamo visto in queste ore non raccontano tanto l’omicidio in sé, quanto la gioia con cui gli ambienti antifascisti e progressisti hanno accolto la notizia. Una gioia che conosciamo bene, che ha precedenti precisi nella storia del nostro Paese, e che dimostra come per alcuni la violenza non sia mai un male assoluto, ma un’arma da applaudire se rivolta contro il nemico giusto. Le prime ore dopo l’omicidio hanno visto comparire sui social i toni più sguaiati. L’OSA, sigla della galassia antagonista studentesca, ha pubblicato la foto di Kirk capovolta con la scritta “-1” e il commento “oggi è un giorno meno buio”. Un messaggio inequivocabile, accompagnato da centinaia di like e condivisioni. Non una presa di distanza dalla violenza, ma un brindisi digitale alla morte del nemico. È lo stesso clima che si respirava a Milano nel 1975, quando l’omicidio di Sergio Ramelli fu accolto dagli applausi in assemblea e dai cori “uno fascista in meno”.
Dal mondo mainstream un insopportabile giustificazionismo
A rincarare la dose ci ha pensato l’avvocato Cathy La Torre, che con un lungo post su Instagram non ha condannato l’assassinio ma ha usato la morte di Kirk come pretesto per una requisitoria politica. Citazioni selezionate, frasi estreme, accuse di razzismo, sessismo e omofobia: un elenco pensato per dimostrare che, in fondo, non era una grande perdita. Un modo elegante per dire che la violenza può non piacere, ma che la vittima se la meritava. Il mainstream giornalistico non è stato da meno. Michele Serra, su Repubblica, ha definito Kirk “un fanatico di destra” ucciso da “un fanatico di sinistra”. Nessun accento sull’orrore del gesto, nessuna pietà umana: solo un bilancino politico per equiparare assassino e assassinato. Peggio ancora la satira di ElleKappa, che ha ridotto la morte a una vignetta, trasformando l’omicidio in pretesto per ridicolizzare la destra americana. È lo stesso schema visto troppe volte in Italia: la vittima diventa caricatura, e il lutto si trasforma in occasione per ribadire la superiorità morale della sinistra. Dalla carta stampata alla televisione, il passo è stato breve. In diretta su La7, il matematico Piergiorgio Odifreddi ha dichiarato che “sparare a Martin Luther King e sparare a un esponente di #Maga sono due cose molto diverse”. In altre parole: ci sono morti che indignano e morti che si possono relativizzare. Un’uscita che ha indignato persino chi non appartiene alla destra politica, ma che conferma la logica del doppio standard: il valore della vita dipende dalle idee che professi.
Una destra ancora in debito
In questo clima, c’è chi ha tentato di classificare l’assassinio con categorie accademiche, ottenendo risultati imbarazzanti. Alessandro Orsini ha parlato del terrorismo antifa come “fenomeno culturale americano”, sganciando l’omicidio dal suo significato politico per ridurlo a tratto folkloristico degli Stati Uniti: chissà cosa ne penserebbero le famiglie dei ragazzi uccisi nemmeno 50 anni fa, sotto casa o dentro una sezione politica. Una lettura che con la scusa dell’analisi deresponsabilizza la matrice ideologica della violenza, quasi fosse un incidente antropologico inevitabile. E persino Giorgia Meloni, pur condannando le frasi degli antagonisti, ha definito i responsabili “sedicenti” antifascisti. Un aggettivo che fa tornare alla mente le “sedicenti” Brigate Rosse; una parola che attenua, che quasi giustifica, che evita di riconoscere una realtà storica: l’antifascismo, ieri come oggi, non è “anche” ma “soprattutto” violenza contro l’avversario politico.
Un quadro complessivo scoraggiante
Il quadro complessivo è chiaro: quando la sinistra si percepisce come vittima, il discorso pubblico si compatta in condanna unanime, evoca fantasmi di fascismo e invoca misure straordinarie. Quando a morire è un uomo di destra, si scatena il coro delle giustificazioni, delle minimizzazioni, delle battute. Oggi Charlie Kirk, ieri Sergio Ramelli: cambiano i protagonisti, resta identico il meccanismo. La radice è sempre la stessa. L’antifascismo non è memoria storica né argine democratico, ma dispositivo ideologico che seleziona chi merita pietà e chi no, chi deve essere compianto e chi può essere irriso anche da morto. La morte di Kirk ce lo ricorda: per i custodi della morale progressista, la violenza non è mai da condannare in assoluto. È uno strumento da maneggiare a seconda della direzione in cui viene esercitata. È questa la vera barbarie che l’Occidente finge di non vedere.
Sergio Filacchioni