Roma, 26 ott – Quarant’anni fa, il 7 ottobre dell’85, un commando di terroristi palestinesi prendeva possesso della nave italiana Achille Lauro, tenendone l’equipaggio in ostaggio per un paio di giorni. Sigonella fu la seconda parte di questa crisi internazionale, e anzi ha assunto una dimensione propria, quasi come un fatto a sé stante e frequentemente commentato a sproposito. Quante volte ci è capitato di veder scritto o di sentire qualcuno parlarne in termini tali da far sembrare quell’episodio come di un ciclopico riscatto dell’orgoglio nazionale, e di un preteso ripudio della sudditanza all’alleato americano anche se solo per un paio di giorni? Troppe volte. Tra l’altro spesso i commenti sono accompagnati da una posa nostalgica piuttosto patetica, mischiata con la bambinesca ingenuità di chi vede tutto o bianco o nero.
Un èpos farlocco
Pensando ad un tipo umano simile viene in mente una scena del film Hammamet, del regista Gianni Amelio, nella quale viene presentato allo spettatore il nipotino di Craxi mentre gioca solitario sulla spiaggia tunisina. Una scena che in realtà, per quanto voglia sembrare delicatamente lirica, finisce per essere quasi grottesca. Il bambino ha piazzato il modellino di un aereo e dei soldatini schierati intorno a cerchio, appunto a richiamare anche visivamente la famosa immagine di Sigonella; quindi, con l’ingenuità propria dei bambini, il regista gli fa fare un mezzo spiegone di come suo nonno, pochi anni prima aveva letteralmente “sconfitto i cattivi” e fatto vedere al mondo “di che pasta erano fatti gli italiani”. Naturalmente la parte dei cattivi è riservata agli americani e non ai dirottatori palestinesi chiusi dentro l’aereo. E se è vero che gli americani sono quel che sono, far passare dei terroristi come gente passata lì per caso non è corretto.
In generale la tragica farsa che fu tutta quella faccenda, di cui Sigonella è il degno epilogo, non si può comprendere appieno senza ripercorrerne velocemente i fatti. Soprattutto per mettere in prospettiva il dissidio con gli americani a cui fu costretto il governo italiano. I retroscena e gli aneddoti svelati pochi anni fa in un’intervista rilasciata alla rivista Limes dal generale della riserva Giuseppe Cucchi, che all’epoca dei fatti era addetto militare presso l’ambasciata italiana a Il Cairo, e che fu protagonista nelle trattative per la liberazione degli ostaggi sequestrati sull’Achille Lauro, sono istruttivi e illuminanti sotto tanti punti di vista.
Il commando palestinese
A proposito del commando dei quattro dirottatori palestinesi, per esempio, si è consolidato il giudizio negativo sulla loro impreparazione militare, a tratti farsesca. Il dirottamento della nave da crociera italiana fu un ripiego, perché il piano originario che prevedeva dopo lo sbarco in Israele l’attacco alla disperata su obiettivi civili era andato a monte. L’essersi fatti beccare dal personale di bordo con le mani nel sacco delle armi li costrinse infatti al dirottamento – in quattro soltanto – di una nave con oltre cinquecento persone a bordo. E dopo aver vagato a casaccio tra le acque territoriali siriane e quelle egiziane senza saper bene che fare, decisero, per dar l’esempio agli ostaggi, di freddare l’ebreo americano Klinghoffer e di farlo buttarlo a mare da alcuni uomini dell’equipaggio.
Altrettanto farsesca è la vicenda di Abu Abbas, palestinese a capo di una frazione oltranzista dell’OLP e lucida mente dietro l’organizzazione del piano originario, ma designato suo malgrado da Arafat – ignaro del suo coinvolgimento – a trattare il rilascio degli ostaggi con le autorità italo-egiziane. Abu Abbas per salvare se stesso salvò anche gli ostaggi, ma rischiando seriamente di finire accalappiato dagli americani. Tutto questo, in generale, la dice lunga su come spesso negli attentati terroristici – anche in quelli di casa nostra – l’imprevisto sia nell’ordine naturale degli eventi, e di come possano esserci sviluppi non voluti da nessuna delle parti in causa che poi fanno assumere al fatto una fisionomia del tutto diversa da quella preventivata.
L’intervento americano
Anche gli americani, successivamente coinvolti nella vicenda – e non solo perché l’ebreo in carrozzella era di nazionalità americana – pasticciarono a modo loro. Dopo che, infatti, fu firmato dall’ambasciatore italiano l’accordo per il rilascio degli ostaggi e dopo che gli attentatori con Abu Abbas ebbero lasciato Il Cairo con un aereo messo a disposizione dagli egiziani, i caccia statunitensi lo intercettarono appena prima dell’atterraggio a Tunisi scortandolo fino in Sicilia. Il problema fu che il comando della Sesta Flotta americana di stanza a Gaeta, li indirizzò alla base di Sigonella, che non era una base americana, ma piuttosto una base italiana di cui una parte soltanto era data in uso alle forze dell’Alleanza atlantica, e soltanto per operazioni approvate in sede di Comando generale. Un dettaglio del quale era necessario tener conto e che invece fu trascurato, probabilmente per l’abitudine di dare per scontata l’accondiscendenza italiana.
L’11 notte, atterrato a Sigonella senza autorizzazione, l’aereo venne circondato dalla vigilanza militare dell’aeroporto. Poco dopo, uomini della Delta Force arrivati con due C-141, circondarono i circondatori, che però vennero circondati a loro volta da reparti dei Carabinieri. Praticamente tre cerchi concentrici di uomini armati che stettero per delle ore a guardarsi male. E qui il commentatore ingenuo, con la lacrima all’occhio mentre pensa a questo sfoggio di celodurismo italiano, deve sapere – lo ha raccontato il generale Cucchi – che per stemperare gli animi, soprattutto delle teste di cuoio americane, il comandante della base pensò bene di far preparare il caffè dai camerieri e di farlo servire in livrea e guanti bianchi a tutti i soldati schierati. Un episodio da commedia all’italiana che conferma l’inossidabile vezzo italiano di trattare fin troppo spesso le cose serie con leggerezza e quelle leggere con serietà.
La gestione italiana
Nell’affaire Sigonella l’atlantismo di precetto non venne ripudiato per chissà quale estemporaneo scatto di orgoglio nazionale, semmai la ragion politica suggerì a Craxi il male minore. L’accordo negoziato a monte per la liberazione degli ostaggi dell’Achille Lauro prevedeva l’incolumità del commando palestinese e il suo trasbordo a Tunisi, dove aveva sede l’Autorità palestinese in esilio. La negoziazione era avvenuta mentre ancora non si sapeva della morte di Klinghoffer. Come detto, gli egiziani erano stati chiamati in causa nelle trattative loro malgrado. Da mallevadori dell’accordo – tanto che fu usato un loro aereo di linea per il trasbordo del commando – paventarono un colpo basso degli italiani quando gli americani intercettarono il velivolo, e sapendo chi fosse in realtà Abu Abbas ne temettero l’arresto. Rischiavano di perdere la faccia nei confronti dell’Autorità palestinese. Perciò bloccarono l’Achille Lauro a Port Said in attesa degli sviluppi, e minacciando di far processare comandante ed equipaggio con la scusa che dopo la liberazione era stata inizialmente taciuta la morte di Klinghoffer (i terroristi avevano minacciato future rappresaglie contro chi avesse parlato).
Il 12 mattina, dopo aver fatto togliere l’assedio all’aereo egiziano con i palestinesi a bordo, e non avendo ceduto alle richieste americane – che tra l’altro erano in contrasto con il diritto internazionale – il velivolo venne fatto spostare a Roma. Essendo l’Achille Lauro una nave battente bandiera italiana i quattro dirottatori palestinesi furono arrestati per essere processati in Italia e non furono estradati negli Stati Uniti come chiedeva Reagan. Abu Abbas venne invece fatto fuggire poche ore dopo il suo atterraggio a Roma. I nostri servizi lo imbucarono su un aereo di linea jugoslavo appena prima che l’autorità giudiziaria fosse informata del suo coinvolgimento nell’organizzazione del dirottamento e ne disponesse il fermo. (Per inciso: gli americani, che sanno essere piuttosto rancorosi, nel 2003 beccarono Abu Abbas in Iraq, che morì in carcere l’anno successivo).
Cosa rimane di Sigonella
Come si capisce, Craxi si era trovato fra l’incudine e il martello. Più che la volontà di fare un dispetto agli americani – cosa che avrebbe volentieri evitato – dovette tener conto delle minacce egiziane e della probabile perdita di credibilità come interlocutore per il mondo arabo mediterraneo. D’altronde con gli americani aveva da spendere dei crediti per la questione degli euromissili; l’affidabilità atlantica non era mai stata in discussione. Fu la real politik a costringerlo a dare un dispiacere agli americani. Tra l’altro è bene ricordare come i guanti bianchi usati dagli italiani con Abu Abbas siano stati ripagati molto malamente. Appena due mesi dopo Sigonella, il 27 dicembre, un commando di quattro palestinesi portò a termine uno degli attentati più sanguinosi mai avvenuti in Italia. All’aeroporto di Fiumicino fecero fuoco e fiamme con kalashnikov e bombe a mano, ammazzando tredici persone e ferendone ottanta. Non proprio un bel ringraziamento.
Visto da vicino, quanto accaduto a Sigonella sembra meno quell’ultimo sussulto di sovranità italiana di cui spesso si parla. Un’idealizzazione che appare perfino ridicola, perché appunto ci si accontenta di così poco, esagerando i meriti dell’Italia del dopoguerra in una sorta di nostalgia dell’altro ieri. Insomma, una pietra di paragone falsata, come dimostrano quanti celebrano nel passato l’agire di Craxi e nel presente hanno in odio ogni tentativo di riarmo, ogni volontà di potenza, ogni spinta verso un’autonomia strategica. Oggi, con un Mediterraneo di nuovo in subbuglio come quarant’anni fa e un’Europa che prende sberle tanto da est quanto da ovest, non possiamo permetterci di pensare alla nostra storia e alle relazioni fra gli Stati con ingenuità bambinesca. Per tornare ad essere realmente padroni del nostro destino, come italiani e come europei, è necessario affrontare la realtà con spregiudicatezza e pragmatismo. E poi è bene farci entrare in testa che non possiamo aspettarci da nessuno tranne che da noi stessi quel riscatto nazionale e quella piena sovranità che in tanti desideriamo.
Matteo Faggi