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Altro che “crimini” e fesserie boldriniane: cosa è stato davvero il colonialismo italiano

by Giovanni Damiano
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colonialismo italiano

Roma, 28 ott – Com’è noto, anche il colonialismo viene strumentalmente utilizzato per colpevolizzare i popoli europei. A maggior ragione, non poteva mancare all’appello il colonialismo fascista, a proposito del quale è stata presentata non molto tempo fa la richiesta d’istituire l’ennesimo giorno memoriale, in ricordo delle sue presunte vittime. Pertanto poche parole sull’argomento non penso siano sprecate, con l’avvertenza preliminare che se ovviamente ci si terrà lontani da ogni demonizzazione del colonialismo fascista, ci si asterrà, parimenti, da ogni sua lettura ‘angelicata’ e apologetica, speculare alla prima, pur se rovesciata di segno. Detto in estrema sintesi, demonizzazione e apologetica sono entrambi modi sicuri per precludersi ogni concreta comprensione storica del fenomeno coloniale fascista.

Colonialismo italiano, al di là dell’apologia e della demonizzazione

Innanzitutto, proprio per evitare di cadere nella trappola dell’apologia, è bene mettere in chiaro subito alcuni punti. 1) Il colonialismo fascista è stato costruttore come altri colonialismi; basti pensare agli inglesi che costruirono in India qualcosa come 70.000 km di strade ferrate, dotando il subcontinente indiano di una infrastruttura ancora oggi fondamentale. 2) Se gli italiani abolirono la schiavitù in Etiopia, gli inglesi fecero altrettanto, prima abolendo la tratta degli schiavi, con lo Slave Trade Act del 1807, e poi la schiavitù in tutto il loro impero coloniale nel 1833, con lo Slavery Abolition Act. 3) La fedeltà delle truppe coloniali è una costante della storia del colonialismo; si pensi agli Harkis algerini o alla Schutztruppe tedesca, che lottò con valore in Africa durante la prima guerra mondiale. E se si va al secondo conflitto mondiale, nella battaglia di Cheren, decisiva per le sorti dell’AOI, si affrontarono anche ascari (da parte italiana) e indiani (da parte inglese). Per cui, tutta una serie di semplificazioni apologetiche sul colonialismo fascista tanto in voga nel neofascismo non reggono a un esame storico un minimo approfondito.

E anche il destino degli italiani dopo la guerra sarà segnato. In Libia, la comunità italiana, che contava ancora 45mila persone agli inizi degli anni ’50, si ridurrà a 27 mila nel 1964, per poi subire il colpo di grazia quando, dopo il golpe di Gheddafi, il 21 luglio 1970 verranno promulgate tre leggi che prevedevano la confisca di tutti i beni della comunità italiana e l’espulsione di tutti i suoi membri, con effetto immediato. Il 18 ottobre 1970 Gheddafi potrà così annunciare la fine della presenza italiana in Libia (cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Libia, vol. II, Laterza, 1988, pp. 447 e 470-475). Anche in Somalia la pagina tragica del pogrom antitaliano di Mogadiscio del 16 gennaio 1948, ad opera dei nazionalisti somali, e costato la vita a 52 connazionali, spinse molti dei già pochi coloni italiani presenti in Somalia a lasciare definitivamente il paese (cfr. A.M. Morone, L’ultima colonia, Laterza, 2011, pp. 25-32).

Gli attacchi di Del Boca

Veniamo ora ai ‘capi d’accusa’. Del Boca, col suo solito tono enfatico e moralista, parla dell’infamia delle deportazioni, riferendosi alla deportazione nel 1930 della popolazione nomade e seminomade della Cirenaica in appositi campi di concentramento per stroncare la rivolta senussita (cfr. A. Del Boca, op. cit., pp. 179-189). Adesso, a parte che il metodo, come riconosciuto dallo stesso Del Boca, metterà i ribelli guidati da Omar al-Mukhtàr, “in una situazione di estrema difficoltà” (p. 189), tanto che la rivolta sarà vinta nel 1931, è il caso di ricordare che il metodo di deportare intere popolazioni in funzione antiguerriglia era stato inaugurato a Cuba nel 1896 dal generale spagnolo Valeriano Weyler, e poi applicato dagli inglesi nella guerra anglo-boera e soprattutto dagli americani nelle Filippine per sconfiggere la rivolta indipendentista di Aguinaldo, al prezzo di centinaia di migliaia di morti filippini (almeno stando agli studi di Glenn Antony May). Quindi non si tratta affatto di una prassi da addebitare esclusivamente o principalmente al colonialismo fascista.

La – quanto meno controversa – tesi del “colonialismo razzista”

Altro punto: il colonialismo fascista è stato interpretato da diversi storici come una sorta di laboratorio razzista anticipatore della successiva legislazione antisemita del ’38. Si tratta però di una tesi assai controversa. Come notato da Marie-Anne Matard-Bonucci, se è vero che nel 1937 venne vietata in Etiopia la pratica del ‘madamato’, cioè la convivenza di cittadini italiani con donne etiopi, per cui “la lotta contro il meticciato inaugurò, sul piano giuridico l’adozione di un razzismo biologico fondato sul principio della purezza del sangue” (M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, il Mulino, 2008, p. 65), è altrettanto vero che gli ebrei etiopi, i falascià, non furono mai molestati e anzi vennero protetti dal governo coloniale fascista (p. 66), a dimostrazione del fatto che razzismo antinero e antisemitismo andranno “a inserirsi in tradizioni ideologiche diverse” (p. 66), ragion per cui, nonostante la celebre copertina del primo numero della rivista La Difesa della razza (che accomunava neri ed ebrei), anche su questa stessa rivista il razzismo antinero (appannaggio del solo Lidio Cipriani) sarà in fondo argomento marginale (cfr. F. Cassata, La Difesa della razza, Einaudi, 2008, pp. 226-245). Emanuele Ertola, invece, analizzando una serie di decreti e regolamenti emanati dalle autorità italiane in Etiopia implementati dalle leggi promulgate direttamente dalla madrepatria, afferma che nell’AOI s’iniziò la costruzione “di un sistema segregazionista” orientato quindi ad una “assoluta separazione” tra italiani e indigeni, “mirante al totale allontanamento dei neri dallo spazio pubblico bianco” (E. Ertola, In terra d’Africa, Laterza, 2017, pp. 125-127). Non credo però si possa parlare di un “impero fascista dell’apartheid” (p. 131), non fosse altro perché la breve durata del dominio italiano in Etiopia rende estremamente aleatoria qualsiasi reale previsione di quel che sarebbe potuto concretamente accadere in futuro.

Ultimo punto: è noto come a seguito dell’attentato al vicerè dell’AOI, Rodolfo Graziani, avvenuto ad Addis Abeba il 19 febbraio del 1937, ci siano state rappresaglie nella capitale etiope ed esecuzioni sommarie, tra le quali quelle di Debre Libanos. In relazione alle uccisioni avvenute ad Addis Abeba, Paolo Borruso, scrive che “per quanto le fonti siano discordanti, gli studi più recenti hanno calcolato circa tremila vittime” (P. Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia, Laterza, 2020, p. 90). Ora, a parte il fatto che, come riconosciuto dallo stesso Borruso, le fonti sono discordanti, il punto essenziale è un altro, e cioè che le presunte tremila vittime, lungi dall’essere frutto di calcoli presenti negli “studi più recenti”, sono in realtà la cifra fornita dagli stessi etiopi, ovviamente interessati a gonfiare il più possibile il numero dei morti. A conferma, Anthony Mockler, in un testo edito originariamente nel 1972, scriveva al riguardo: “quante persone erano state uccise nei tre giorni di massacri? Gli abissini parlarono, in seguito, di tremila vittime; gli italiani si limitarono ad ammettere che i morti erano poche centinaia. È probabile che il numero esatto si aggiri sulle tremila persone” (A. Mockler, Il mito dell’impero, Rizzoli, 1977, p. 224). Quindi la cifra di tremila vittime circolava perlomeno già dagli anni Settanta, ed era di provenienza etiope.

Chiudo con il massacro di Debre Libanos. Secondo Borruso, che si appoggia soprattutto sui lavori di Campbell, le vittime non sarebbero 452, come risulta dai documenti di parte italiana, ma tra le 1400 e le 2000 (p. 119). Una cifra molto più alta, non basata, però, su alcun documento ma solo su dichiarazioni di testimoni quali Tebebe Kassa, “allora tredicenne” (p. 103) e il “quindicenne Zeleka” (p. 116) e suo padre, sulla cui attendibilità direi non sia il caso di pronunciarsi. Altrettanto improbabile la spiegazione, che Borruso riprende sempre da Campbell, sulla “discrepanza tra le cifre”, dovuta “alla necessità del vicerè [Graziani] di tutelarsi da eventuali critiche o inchieste” (p. 118). In pratica, Graziani nel 1937, grazie alle sue stupefacenti doti divinatorie, avrebbe nascosto le vere cifre del massacro di Debre Libanos perché consapevole del futuro che l’attendeva. Ma è davvero credibile parlare del “più grave crimine di guerra dell’Italia” su tali basi?

Giovanni Damiano

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