Roma, 2 mar – La vicenda di Dj Fabo e del suo suicidio assistito ha riacceso un dibattito che, periodicamente, anima l’opinione pubblica italiana: quello sul “fine vita”. Già questa pudica espressione, del resto, racconta bene il carico di ipocrisia che regna sull’argomento, dato che in nessuna delle espressioni che vi fanno riferimento è citata la parola morte. La posizione cattolica è chiara: nel diritto canonico il suicidio è considerato un delitto, in base al concetto che l’uomo è soltanto custode e usuario della propria vita, della quale padrone assoluto è Dio. Una visione che richiama una concezione filosofica e teologica ben precisa, non priva peraltro di una sua tragica grandezza. L’ovvia obiezione, a prescindere da ogni confutazione “filosofica” di tale posizione, è che nell’ordinamento italiano tale filosofia di vita (e di morte) finisce per imporsi anche a chi cattolico non è e quindi non condivide quei presupposti valoriali. Insomma, come viene spesso detto dai sostenitori del testamento biologico, “c’è gente che vuole decidere come dobbiamo morire”. Non che la visione opposta, quella “laica” e individualista, con la sua fissazione sui “diritti”, sia così entusiasmante. Anche qui regnano mille ipocrisie, dati anche i tabù brucianti che vigono sull’argomento (la reductio ad hitlerum è sempre dietro l’angolo, come sappiamo).
L’inutile pantomima del “suicidio assistito”, per esempio, che prevede il gesto autonomo del paziente che si dà la morte spingendo un tasto, ma a fronte di una clinica che fornisce (dietro ingente pagamento) materiali e assistenza, appare piuttosto cerchiobottista. E pure la retorica sulle “buone ragioni” valutate da una “apposita commissione”, per cui se io chiedo l’eutanasia ci deve essere un burocrate svizzero che ha studiato bioetica alle scuole serali che deve decidere se ne ho effettivamente diritto, suona insopportabile. Più onesto sarebbe se ci si limitasse a valutare solo l’impossibilità fisica di darsi la morte da soli, cosa che, paradossalmente, invece spesso non viene fatta: in Belgio si può far ricorso alle apposite cliniche anche se si hanno 24 anni ma si è “depressi”. Il 3% dei pazienti che affrontano il suicidio assistito nel Paese soffre di sofferenza psichica. Gente, insomma, che se lo volesse potrebbe tranquillamente suicidarsi, ma che preferisce l’ambiente burocratico e “caldo”, con il rinfresco e le canzoni. Ma se si è nella condizione fisica di darsi la morte e non si ha il coraggio di farlo, non si ha nessun “diritto” in questo senso. Si abbia un minimo di rispetto per la morte, e che diamine.
Anche il discorso sulla libera volontà del paziente va incontro a contraddizioni tanto filosofiche che pratiche. Che ne è, per esempio, dei soggetti incapaci? I minori o chi abbia un qualche deficit cognitivo, per esempio. Se ne devono essere esclusi, avremmo il paradosso di un trattamento umanitario, volto a evitare atroci sofferenze, che viene però negato proprio ai soggetti più deboli. Se non devono esserne esclusi, ci troviamo di fronte alla situazione per cui qualcuno decide della buona vita e della buona morte di qualcun altro (come di fatto accade, ma alla chetichella). Questo è il vero tema, che nessuno dei favorevoli al testamento biologico ha la forza di guardare negli occhi fino in fondo. L’argomento, infatti, avrebbe bisogno di una chiara e coraggiosa decisione su ciò che è vita, ciò che è morte e quale sia l’autorità dell’uomo e della comunità su di essa. In assenza di questa, si resta in una zona grigia di buonismi, furberie, contraddizioni, ipocrisie. Il che non significa, beninteso, che tutte le tesi in campo attualmente siano equidistanti da una posizione equilibrata e consona al sentire europeo. Una qualche legislazione che permetta di porre fine volontariamente a sofferenze insopportabili e a condizioni esistenziali indegne, per quanto incompleta e barocca, è comunque preferibile all’attuale chiusura totale. Ben venga, quindi, una legge sul testamento biologico. Ma non cercate di convincerci che la ciarla semicolta e savianesca che blatera di vita, morte e dignità non meritando nessuna delle tre valga davvero più delle superstizioni e dei dogmi dell’opposta fazione ideologica. Fa solo tutto parte della stessa agonia dell’Occidente, per la quale è urgente staccare la spina quanto prima.
Adriano Scianca