Roma, 3 nov – In ogni episodio dell’”europicidio” a puntate che da anni attraversa il continente — un’aggressione, un accoltellamento, una “tragedia” che svanisce dopo due giorni di indignazione — c’è sempre una costante: il coraggio dimenticato. Ogni volta che un folle o un immigrato armato semina il panico in un parco, in una stazione, su un treno, la cronaca si ripete con inquietante precisione. C’è il carnefice, ci sono le vittime, ci sono i complici — redazioni, parlamenti, burocrazie di polizia — che fingono di non capire. Ma, in mezzo, ci sono sempre gli eroi: cittadini qualunque che reagiscono, che si mettono di mezzo, che rischiano. E sono proprio loro a sparire per primi dalla narrazione. Partiamo da Huntingdon.
Gli eroi del treno di Huntingdon
Sabato 1 novembre 2025, un uomo armato ha aggredito diversi passeggeri su un treno LNER in viaggio da Doncaster a Londra. Il convoglio è stato fatto fermare d’urgenza a Huntingdon, nel Cambridgeshire. Almeno undici feriti, due gravi. Tra loro, un membro del personale che, insieme al macchinista, ha affrontato l’assalitore per salvare i passeggeri. La polizia ha parlato di “atto di coraggio straordinario”, ma nel giro di ventiquattr’ore il caso è stato riassorbito nella consueta formula: “nessuna pista terroristica, gesto isolato”. E così gli “eroi” sono scomparsi dalle prime pagine ancor prima che venisse pubblicata la loro foto. Un copione che si ripete a due anni dall’8 giugno 2023, quando ad Annecy, in Francia, un uomo di origine siriana aveva accoltellato bambini e passanti in un parco. Tra le persone che reagirono, un giovane ventiquattrenne, Henri d’Anselme, armato solo di uno zainetto. Si mise tra l’assalitore e le vittime, consentendo alla polizia di intervenire. Ma anche in questo caso, la memoria collettiva lo ha dissolto. Niente libri, niente interventi televisivi, niente programmi scolastici: solo qualche intervista e un oblio rapido e silenzioso. Del resto, anche in Italia abbiamo un esempio: nel marzo 2023, nei pressi della stazione Centrale di Milano, un uomo di origini marocchine, Abrahman Rhasi, aggredì più persone tra via Gluck e via Sammartini. Un sessantottenne, Francesco Micciantuono, ex paracadutista e oggi macellaio, intervenne per difendere una ragazza di 23 anni. Fu colpito al braccio e finì in codice rosso. L’aggressore è stato poi condannato a 12 anni, ma il gesto del cittadino è rimasto confinato nella cronaca locale. Nessuna onorificenza, nessuna tutela, nessuna protezione per chi ha rischiato la vita. Tre episodi, tre figure esemplari. Nessuno di loro ha chiesto nulla. Nessuno di loro è diventato simbolo di nulla. Ma la somma di questi casi — e di molti altri rimossi — rivela una verità scomoda: l’Europa non sopporta più l’idea dell’eroe.
La cultura del vittimismo
Il meccanismo è sempre lo stesso. Quando un cittadino interviene e salva vite, lo si celebra per un giorno, lo si infiocchetta come “cittadino modello” o “ragazzo dal cuore grande”. Poi, appena si intravede un contenuto politico dietro il gesto — la volontà di difendere, di reagire, di non rassegnarsi — il tono cambia. L’eroe diventa un “aggressivo”, un “reazionario”, un “fanatico”. Le sue parole, se le pronuncia, vengono censurate o svuotate. È un riflesso condizionato del sistema mediatico: riconoscere il coraggio significherebbe ammettere che c’è qualcosa che richiede coraggio, cioè che il modello sociale europeo non è così sicuro, giusto o armonioso come si pretende. Meglio ridurre tutto a caso individuale, a fatalità, a disturbo mentale. Ma la rimozione non è solo mediatica. È anche culturale, e si annida tanto nel campo progressista quanto in quello sedicente “antisistema”. Da un lato, le redazioni liberal che vedono nel gesto eroico un fastidio per la loro morale disarmata; dall’altro, i “boomer del disincanto” che vivono nella pornografia del declino, riducendo i propri compatrioti ai soli “risvoltini” o ai “monopattini”. Due facce della stessa rinuncia: perchè indulgere sulla decadenza è un piacere. È una droga. Parla alla parte peggiore di noi, quella che si eccita di fronte al disastro purché non le venga chiesto impegno. C’è chi da tempo monetizza questo piacere — nei talk show, nei blog del catastrofismo, nelle pagine social che campano di cinismo. Tutti accomunati da una certezza: l’europeo deve essere vile. Deve essere spettatore, non attore. Un individuo atomizzato, pavido, sradicato, incapace di sacrificio. Il racconto dell’eroe, per loro, è un pericolo politico. Perché l’eroe spezza la narrazione della vittima.
Il gesto eroico che fonda le civiltà
Spesso infatti, anche nella lodevole attività di pochi giornalisti disposti a denunciare con rigore le violenze degli allogeni, prevale un registro improntato al vittimismo: la “violenza subita” primeggia sulla “violenza necessaria”. Invece, raccontare anche questi gesti eroici significa restituire un’idea di Europa viva, di comunità etica che resiste anche nei frammenti urbani delle metropoli multietniche. Vero, l’eroismo autentico non dovrebbe essere uno spettacolo, ma un gesto d’ordine: l’irruzione del dovere in una società che ha smarrito il senso del limite. Ma proprio per questo, il gesto dell’eroe civile andrebbe istituzionalizzato, raccontato, reso patrimonio accessibile dalla lingua universale dell’emulazione positiva. Ma andrebbe anche tutelato: con un fondo pubblico per le spese mediche e legali di chi difende altri, con un albo europeo che conservi la memoria di questi atti, con programmi di formazione civica e di pronto intervento nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Perchè non intitolare una simile iniziativa a Tommie Lindh, il giovanissimo svedese di 19 anni ucciso nel 2020 nella cittadina di Härnösand mentre cercava di difendere una ragazza da uno stupro da parte di un immigrato sudanese? Lindh non è mai entrato nel pantheon dell’eroismo civile europeo. Il suo nome è rimasto confinato nei blog, nei siti marginali, e mai riconosciuto per ciò che rappresenta: un giovane europeo che ha reagito, che ha pagato con la vita un atto di protezione verso un altro membro della sua comunità.
Incarnare per un istante la verticalità
Un’Europa capace di ricordare i suoi eroi civili sarebbe già un’Europa degna di se stessa. Non si tratta di erigere statue o di inventare nuovi santi laici, ma di riconoscere che la civiltà nasce e si rinnova attraverso il sacrificio, non attraverso la neutralità o i cantori della decadenza. Gli uomini e le donne che, come Lindh, Micciantuono o d’Anselme, si sono messi tra il male e gli inermi, hanno incarnato per un istante quella verticalità che un continente smarrito finge di non comprendere più. Ricordarli, cercarli, raccontarli è un atto politico, perché significa riaffermare che esiste una comunità europea del coraggio, fatta di cittadini che non si rassegnano alla paura né alla resa. Finché ci sarà qualcuno disposto a schierarsi, l’Europa non sarà un museo di colpe, ma un corpo vivo che, tra mille ferite, prova ancora ad esistere.
Sergio Filacchioni