Roma, 16 giu – Nel 2021 Arktos ha ripubblicato Prelude to War (Avant-guerre: Chronique d’un cataclysme annoncé, L’Æncre, 2003) di Guillaume Faye, saggio profetico e disturbante che oggi — tra guerre ai confini d’Europa, crisi migratorie strutturali e fratture interne mai ricomposte — assume un valore di lettura quasi chirurgica del nostro tempo. Senza scivolare nella semplice apologia, è opportuno esaminare con lucidità il contributo concettuale offerto da Faye, soprattutto per chi, oggi, si interroga sul destino del continente europeo.
Faye e il preludio alla guerra
Guillaume Faye, nelle prime pagine di Prelude to War, formula una diagnosi brutale ma lucida: l’Europa, cullata dall’illusione della pace postbellica, ha creduto di poter archiviare la Storia. Ha creduto che diritti, consumo, intrattenimento e tolleranza potessero sostituire conflitto, destino, potenza e identità. È l’illusione che nel 1992 Francis Fukuyama ha codificato nel saggio La fine della storia e l’ultimo uomo, dando voce allo spirito dell’epoca: la democrazia liberale come esito finale dell’evoluzione umana. Ma proprio quell’“ultimo uomo”, che Nietzsche aveva profetizzato in Così parlò Zarathustra, è oggi sotto attacco. L’ultimo uomo vive nella sicurezza, rifiuta il rischio, teme la verticalità e rifiuta la differenza. Dice: “Abbiamo inventato la felicità” e ride. Ma come scrive Nietzsche, «l’uomo è qualcosa che dev’essere superato». Faye non usa la stessa terminologia, ma il suo bersaglio è identico: la civiltà europea è in mano a uomini senza volontà, a gestori del nulla, a burattini postmoderni. E contro di essi torna la Storia, con le sue leggi dure: guerra, migrazione, etnia, religione, scontro.
«Il ‘tranquillo’ individualismo borghese, per quanto soddisfacente oggi, sarà solo un ricordo lontano; e in un futuro non troppo remoto, si chiameranno gli anni Cinquanta-Novanta del Novecento ‘Età dell’Oro’. Ma i giovani di oggi assisteranno al ritorno della Storia, cioè al ritorno della tempesta»
Dove Fukuyama vede un orizzonte piatto e definitivo, Faye intravede una soglia, una frattura, un’epoca terminale. La pace è solo una pausa. I “diritti” sono anestetici. L’Unione Europea, invece di diventare un impero, è diventata una macchina per disinnescare ogni forma di volontà. Eppure, dice Faye, il risveglio è in corso. L’epoca dei “valori universali” si scontra con l’età delle civiltà. Il post-umanesimo cede il passo al tribalismo. I fantasmi che l’Occidente credeva di aver sepolto — identità, sangue, confine, religione — tornano a imporsi sul piano politico e simbolico. Come per Nietzsche, anche per Faye il nichilismo passivo (l’ultimo uomo) può essere travolto solo da un nichilismo attivo: distruttivo, generatore, fondatore. Solo un’azione politica capace di rompere l’incantesimo del comfort potrà dare un futuro all’Europa. La domanda non è più se si può evitare il conflitto, ma come si prende parte ad esso.
La lotta di classe etnica: oltre Marx, verso una nuova antropologia politica
Faye recupera — con ironia tragica — uno schema marxiano, ma lo rovescia: la vera lotta di classe oggi non è tra capitale e lavoro, ma tra popolo autoctono europeo e colonizzatori immigrati, sostenuti da una borghesia cosmopolita e nichilista. In questo senso, Faye aggiorna la “teoria dei blocchi” trasformando il proletariato europeo in soggetto rivoluzionario.
«La nuova lotta di classe oppone la borghesia bohemienne e i colonizzatori immigrati al proletariato autoctono. I ricchi mandano i figli in scuole private ‘senza stranieri’, i poveri devono convivere con l’aggressività importata».
Qui il punto non è morale, ma strategico. L’immigrazione non è vista come fenomeno sociale, ma come arma culturale e demografica utilizzata dal blocco dominante per disintegrare l’identità dei popoli europei. Se Alain de Benoist parlava di homme déraciné, Faye va oltre: siamo di fronte a un tentativo di sostituzione della popolazione. Ma la sua critica va oltre ed è più radicale. Uno degli assi portanti dell’opera infatti è la denuncia dell’espansione islamica in Europa, vista non come un problema di “integrazione”, ma come una strategia di conquista religiosa e demografica. A prescindere dal tono provocatorio dell’autore, non si può negare la radicalizzazione crescente di alcune comunità, la crisi del modello repubblicano francese e il peso crescente dell’Islam politico, anche nelle sue versioni “moderate”. Faye, in anticipo su molte analisi odierne, segnala che il problema non è solo “l’islamismo”, ma l’Islam in quanto totalità teologico-politica incompatibile con la laicità europea. Un’affermazione forte, ma oggi non priva di riscontri nel dibattito strategico francese (si veda il rapporto dell’Institut Montaigne del 2016).
La falsa alternativa: antiamericanismo o Islam? Faye rompe lo schema
Nel secondo Novecento, parte della destra radicale ha coltivato un antiamericanismo riflesso, talvolta quasi mistico. In reazione all’occupazione culturale yankee e all’ordine liberale post-1945, si è spesso smarrito il principio strategico: individuare il nemico principale non in base all’ideologia, ma alla capacità reale di minacciare l’identità europea. In questo senso, Faye non solo “rompe lo schema”, ma riprende una tradizione intellettuale minoritaria e coraggiosa che parte da Berto Ricci e arriva ad Adriano Romualdi: denunciare l’“americanizzazione” come “forma ultima del nichilismo moderno”, ma rifiutare categoricamente ogni esotismo rivoluzionario o culto dell’Oriente come alternativa. Faye in questo non è meno radicale, ma certamente più concreto. Denuncia l’America non come forza occupante in senso militare, ma come agente dissolutivo: Hollywood, multiculturalismo, finanziarizzazione dell’esistenza. Ma ribadisce che il nemico che avanza, letteralmente, con “l’utero e il Corano”, è l’Islam. In Prelude to War scrive:
«L’America è un avversario perché indebolisce l’Europa con macchinazioni subdole, senza attaccarla apertamente. L’Islam, invece, ci invade con un esercito inesauribile di orde fertili. E cammina, davvero».
È la vecchia distinzione strategica di Schmittiana memoria: quella tra avversario e nemico. L’avversario può essere combattuto, contenuto, persino alleato se necessario. Il nemico è esistenziale, va respinto senza compromessi. E l’unico modo per farlo è percorrere la strada più difficile: quella dell’autonomia strategica dell’Europa.
Eurosiberia: tra visione e ambiguità
Uno dei passaggi più noti e controversi del libro è sicuramente la proposta geopolitica di una grande alleanza continentale da Parigi a Mosca. Faye immagina un’“Eurosiberia”, evocando Carlo Magno, la Rus’ di Kiev e il mito della linea bianca che unisce Atlantico e Pacifico. Come ben argomentato da Adriano Scianca qui su Il Primato Nazionale, spesso la narrativa dell’“Europa una da Lisbona a Vladivostok” si presta ad essere sfruttata da Mosca per spacciare il proprio revanscismo imperiale come “difesa dell’identità europea“. In realtà, l’Europa ha confini culturali e politici netti, e la Russia post-sovietica — imperialista, neo-zarista, fortemente orientata verso l’Asia e l’islam russofono — non può essere considerata un alleato naturale della rinascita identitaria europea. L’indipendenza europea va affermata contro ogni forma di impero estraneo, sia quello globalista-occidentale sia quello russo-orientale. Ma anche su questo Faye non rinuncia a dire la sua, con parole che oggi lo farebbero bollare tranquillamente come “amico della Von der Leyen”. Il suo approccio alla costruzione europea è pragmatico, contrariamente a quanto affermano detrattori superficiali. Faye non rigetta in blocco l’Unione Europea. Ne vede i limiti, l’impostazione tecnocratica, l’ideologia liberal-progressista sottesa ai trattati (da Maastricht ad Amsterdam), ma ne riconosce anche la rottura storica rispetto all’Europa degli Stati-nazione chiusi e frammentati. Nella seconda edizione dei Nouveaux discours à la nation européenne, Faye scrive:
«Per quanto sia pertinente, la critica dell’Europa [del trattato] di Amsterdam e dell’euro dimentica un fatto storico capitale: una forma politica può evolvere dall’interno, sotto la pressione delle circostanze. […] L’Europa fortemente imperfetta che si edifica nel disordine crea nondimeno una rottura storica. La mia convinzione è che non ci si possa evidentemente fermare all’Unione europea attuale, ma che non si possa comunque più tornare indietro».
Questa è una visione “gramsciana” nel senso più realistico del termine: Faye considera l’Unione attuale non un fine, ma una forma incompiuta che può — e deve — essere trasformata radicalmente. Non si tratta dunque di distruggere Bruxelles, ma di contendere l’Europa dall’interno, in chiave identitaria, organica, post-liberale. Una visione che contrasta sia con l’europeismo progressista da Erasmus e diritti civili, sia con il sovranismo reazionario, nostalgico del “sacro confine”. La terza via di Faye è quella dell’Europa come soggetto di potenza: un progetto geopolitico, etnoculturale e militare, che presuppone però la volontà di rottura e il superamento delle classi dirigenti attuali.
L’Europa potenza latente
«L’Europa è una potenza latente che non vuole esserlo. È una ‘iperpotenza’ inconsapevole di sé stessa, o meglio: che non vuole esserlo».
Prelude to War non offre risposte semplici. È un testo duro, talvolta esagerato, sicuramente radicale. Ma nella sua essenza contiene una verità: l’Europa è in guerra, anche se non lo ammette. Lo scontro non è solo militare, è demografico, spirituale, simbolico. L’intuizione fayeana resta valida: l’azione identitaria non come nostalgia, ma come combattimento reale in un mondo che non ha più tempo per le illusioni. E in questo Faye si dimostra molto più ottimista di quanto non voglia sembrare: per lui infatti il compito storico dell’Europa non è l’odio, ma la creazione. Oggi, chi vuole difendere l’identità europea non può pensare in termini provinciali: deve ragionare in chiave imperiale, organica, continentale. L’Europa deve diventare un centro di forza, di civiltà e di volontà storica. Ma come per lo Zarathustra, Faye non parla alle masse. Parla a chi ha orecchie per intendere.
Sergio Filacchioni