Roma, 29 ott – Dopo decenni di letargo strategico, l’Europa si trasforma. La Germania ha avviato il più grande programma di riarmo dalla fine della guerra fredda: 377 miliardi di euro destinati alla modernizzazione della Bundeswehr e alla creazione di un sistema integrato tra difesa, protezione civile e formazione civica. Il cancelliere Friedrich Merz parla di una Germania “spina dorsale della sicurezza europea”, ma in realtà si tratta di qualcosa di più profondo: il ritorno della potenza tedesca come motore della costruzione di un’Europa strategicamente autonoma.
La Germania come volano industriale
Il nuovo bilancio della Difesa, con 82,7 miliardi previsti per il 2026, sancisce il definitivo superamento del complesso di colpa postbellico. Droni, carri Leopard 2 A8, caccia F-35, elicotteri Chinook e infrastrutture digitali e cibernetiche: la Germania si prepara a essere non solo garante della propria sicurezza, ma pilastro militare dell’Occidente europeo. Parallelamente, l’introduzione di moduli di “educazione alla resilienza” nelle scuole e nelle università segna un cambio di mentalità: la sicurezza torna parte integrante della formazione civica, non più delegata agli eserciti ma condivisa dal corpo sociale. È il brusco risveglio di un continente che si era illuso di poter vivere disarmato e “petaloso”. Nonostante questo cambio di mentalità, che noi da sempre auspichiamo, già si aggira una certa narrativa bastian contraria: “La Germania si riarma con i soldi nostri”. In realtà, l’operazione tedesca è finanziata in larga parte da capitali propri e da debito comune europeo, strumenti che, se ben gestiti, possono diventare un volano per le industrie continentali, Italia compresa. La Bundeswehr sta pianificando oltre 300 programmi di armamento, quasi tutti affidati a contractor europei: Leonardo, Avio Aero, Fincantieri, MBDA Italia e altre aziende italiane sono già integrate nella catena produttiva tedesca. Ogni euro investito a Berlino genera commesse, ricerca e occupazione anche a Torino, La Spezia, Pomigliano. La questione, dunque, non è tanto “con i nostri soldi”, ma per quale progetto politico. Se il riarmo tedesco resta confinato in una logica atlantista, il rischio è le potenzialità più interessanti vengano inespresse. Ma se diventa il motore di una sovranità industriale europea, allora rappresenta un’occasione storica: quella di costruire una potenza continentale in grado di difendere i propri confini, produrre le proprie armi e dettare le proprie priorità strategiche. L’Italia, in questo quadro, non dovrebbe temere Berlino ma pretendere di essere parte della cabina di regia.
Roma alla ricerca di spazio
Anche Roma si muove nella stessa direzione. Secondo l’osservatorio Milex, la spesa militare italiana raggiungerà nel 2026 i 35 miliardi di euro, con un incremento di un miliardo rispetto all’anno precedente e un record storico di 13,1 miliardi destinati ai programmi di armamento. È la prova che la difesa torna ad essere considerata un settore produttivo strategico, capace di muovere ricerca, industria e innovazione tecnologica. Il rilancio del comparto bellico non è soltanto una risposta alle tensioni internazionali, ma il segno di un cambio di paradigma: la difesa come infrastruttura economica della sovranità. In questo quadro, che pure sconta un dibattito pubblico rimasto indietro anni luce (per le scuole, ad esempio, ancora parliamo di programmi intrisi di pensiero debole), l’entrata in vigore dell’Accordo di Acquisizione e Servizi Incrociati (ACSA) tra Italia e Giappone segna un punto di svolta nella politica estera e militare del nostro Paese. L’intesa, firmata nel 2024 e ora operativa, consente alle Forze Armate dei due Stati di scambiarsi rifornimenti, assistenza tecnica, infrastrutture e supporto logistico, riducendo drasticamente tempi e burocrazia durante missioni multinazionali o esercitazioni congiunte. Come ha spiegato il ministro Guido Crosetto, “l’ACSA consolida un partenariato strategico fondato su fiducia, tecnologia e interessi comuni”. È il coronamento di un lungo processo diplomatico che proietta l’Italia dentro una rete di cooperazione sempre più estesa nel quadrante indo-pacifico, dove si stanno definendo i nuovi equilibri globali. Ma l’asse Roma-Tokyo non si limita al piano militare. Sullo sfondo, prende forma un spazio strategico euro-nipponico che unisce difesa, industria avanzata e ricerca spaziale.
L’Esa sbarca a Tokyo
Nelle ultime ore infatti, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha annunciato l’apertura della sua prima sede permanente in Asia, nel cuore del distretto dell’innovazione di Nihonbashi, a Tokyo. È un evento simbolico e concreto allo stesso tempo: per la prima volta, l’Europa stabilisce una presenza stabile in Giappone per rafforzare la cooperazione con la JAXA e con il vivace ecosistema di start-up tecnologiche nipponiche. Il direttore generale dell’ESA Josef Aschbacher ha definito la decisione “una dichiarazione d’intenti: portare la cooperazione con il Giappone a un livello superiore, in ogni dominio dello spazio, dall’osservazione terrestre alla difesa planetaria”. Il nuovo ufficio fungerà da ponte operativo tra Europa e Giappone, facilitando missioni congiunte come BepiColombo (verso Mercurio) o Hera (sull’asteroide Dimorphos) e preparando quelle future, come Ramses e Destiny+, che vedranno le due potenze lanciare insieme nuove piattaforme di esplorazione e sorveglianza. La quasi simultaneità dei due eventi – accordo militare ACSA e presenza ESA a Tokyo – racconta una tendenza precisa: l’Europa non si limita più a guardare a est come a un mercato, ma come a uno spazio politico e tecnologico complementare. Mentre gli Stati Uniti si concentrano sul contenimento della Cina, l’asse euro-nipponico offre all’Europa la possibilità di proiettarsi nel Pacifico come attore sovrano, cooperando con una potenza industriale e scientifica affine per valori, mentalità e modello di sviluppo. Per l’Italia, il vantaggio è duplice: da un lato, rafforza il proprio ruolo nella filiera tecnologica della difesa e dell’aerospazio, dall’altro si colloca come interlocutore privilegiato tra il Mediterraneo e il Pacifico, cerniera naturale della potenza europea estesa. In un’epoca in cui la geopolitica torna a essere questione di capacità produttiva, tecnologica e spaziale, il dialogo tra Roma e Tokyo rappresenta una delle piattaforme più interessanti e promettenti.
Le lacune italiane sul discorso difesa
Resta il fatto che l’Italia, pur avendo riacceso il motore della propria industria militare, non ha ancora sviluppato una vera cultura strategica. Il dibattito pubblico continua a oscillare tra il pacifismo retorico e il servilismo atlantico, senza una visione autonoma che colleghi difesa, tecnologia, istruzione e demografia a un progetto di potenza nazionale. Il caso più emblematico è senz’altro la cessione di Iveco Group agli indiani di Tata Motors. Un segnale di doppia insufficienza: da un lato, la difficoltà a trattenere nel Paese le filiere altamente strategiche nella mobilità terrestre e nella catena produttiva ad alta tecnologia; dall’altro, la frammentazione delle «eccellenze nazionali» in settori diversi, che rende più complicato coordinare industria, ricerca e strategia nella costruzione di una vera sovranità tecnologica. Ma soprattutto mancano una classe dirigente formata alla geopolitica, un sistema educativo capace di trasmettere senso civico e identità collettiva, e un immaginario strategico condiviso: la consapevolezza che il potere non è solo questione di armi, ma di volontà politica. La Germania, nel bene o nel male, ha ricominciato a pensare sé stessa come soggetto storico. Noi, troppo spesso, come un semplice membro del club occidentale. Eppure la nostra posizione geografica, la nostra tradizione industriale e il nostro patrimonio culturale ci rendono un Paese naturalmente strategico, ponte tra Europa e Mediterraneo, tra passato e futuro. Il compito che ci attende non è semplicemente imitare Berlino, ma colmare il vuoto di pensiero e formazione che separa l’Italia da una piena sovranità. Senza una cultura della potenza, ogni investimento resta cifra su carta: solo l’educazione al dovere, al rischio e alla responsabilità può restituire senso alla parola “difesa”.
La necessità della forza
Il tempo delle mezze misure è finito. L’Europa che si riarma non ci deve interessare tanto per il fascino della militarizzazione in sè, ma per il cambio di mentalità che porta: finalmente si riconosce la necessità della forza come condizione della libertà. Il che non vuol dire automaticamente perdere di vista le mete sociali e sanitarie, come certa sinistra vorrebbe farci credere da 80 anni a questa parte ogni qual volta sul piatto ci sono armi, infrastrutture ed energia. A chi teme il ritorno della potenza, bisognerebbe ricordare che l’impotenza non è mai stata garanzia di pace, benessere e sicurezza. Del resto, gli stessi anni Ottanta che oggi molti ricordano come “anni d’oro” non furono, in realtà, i più armati della guerra fredda? L’Europa era disseminata di missili, la deterrenza nucleare era all’apice, e tuttavia ci ricordiamo soltanto della musica leggera e i film… L’Italia, come cuore geografico e storico del continente, ha il compito di dare forma politica a questa metamorfosi: unire tecnica e cultura, industria e visione, difesa e identità. Non per inseguire o compiacere, ma per contribuire attivamente alla costruzione di una potenza europea consapevole di sé, capace di scegliere, decidere e agire. Se sapremo farlo, il riarmo non sarà la fine della civiltà europea, ma il suo ritorno alla Storia.
Sergio Filacchioni